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Trevi Emanuele, Sogni e favole (CorSera, 26.4.19)

Emanuele Trevi ha il dono di trasformare la letteratura in vita e la vita in letteratura, instaurando una circolazione virtuosa di materiali  accesi, riuscendo a mostrare – senza nemmeno spiegarlo – che l’opera d’arte è biologica e che certe biologie nascono già “letterarie”, che si tratti di Metastasio, di Cesare Garboli o di Amelia Rosselli, perché l’arte vive in un senza tempo nel quale la biologia di Metastasio è contemporanea a quella di Rosselli.

Questo piccolo miracolo d’invenzione (non solo verosimile, vera) può avvenire perché Trevi vede il mondo da un luogo lontano, il solo che permetta di intercettare le baudelairiane «corrispondenze» tra cosa e cosa – e testimoniarle.

Sogni e favole prende fiato dal sonetto nel quale Metastasio, come alienato per la durata di pochi versi dal corpo ispirato dell’opera, si stupisce del proprio commuoversi di quanto egli stesso inventa. Trevi si mette sulle tracce di questo doloroso stupore per l’invenzione più vera del vero e lo ritrova, avanti nei secoli, nel melanconico miscuglio lirico di Pessoa, ma segue anche il decorso fisiologico della realtà, i mutamenti della gioia dell’arte, dagli anni madidi di sogno dei lungometraggi di Tarkovskij alla fulminea voracità contemporanea.

Al principio ero caduta nell’assunto apparente del libro (un trappolone, come l’annuncio dell’arrivo di Patti Smith a Castelporziano), mi ero scontrosamente ribellata all’ipotesi, che pare conseguire a simili premesse, che tutto sia nulla, avendo avuto, in un fortunato istante della vita, l’esperienza di comprendere il dantesco «intelletto d’amore» che, più che una rete di senso, è una rete di simultaneità, ma Sogni e favole è tutt’altro che un canto nichilista, è la cima della montagna sulla verità del nulla, la cima dalla quale si guarda all’umano con una ragionevole compassione. Sé stessi inclusi, naturalmente. Rivelando che tutto, alla fine, si rovescia, che intelletto d’amore e maschera del nulla conducono alla medesima conclusione: siamo qui brevemente e senz’altra ragione che vivere senza ragione, oppure presi fortuitamente a strappi dalla garboliana gioia.

La prosa di Trevi è, come sempre, malleabile e porosa, mai chiusa, è un muro portante di parole pieno di fratture e sventagliato da versi come proiettili o pezzi di selce primitiva, lasciati a vista nella struttura. Porta in una lontanissima profondità, in un luogo insieme eterno e particolare, momentaneo e  universale. In poche parole, offre compagnia, una spina dorsale alla quale il lettore può attaccare le proprie fantasie come arti fantasma perché il portatore è, appunto, malleabile e poroso. Disponibile.

Infatti, quando scrive di destino che straborda dall’unica persona, di un destino destinato piuttosto a una moltitudine, come nel caso di Amelia Rosselli, Trevi contraddice il cinismo e l’amarezza che rivendica per sé, poiché riferisce l’apparizione goffa e lunare di un insondabile «assoluto», di una grandezza inviolabile. Come quella dell’insostituibile fotografo Arturo Patten. Patten e Rosselli portano a vista nella propria carne l’utopia o, forse, sono una vera incarnazione dell’indefinibile altrove del quale abbiamo nostalgia. Quando Rosselli rilascia la sua voce arcaica, arrotata, quasi animale, sopra la folla oppositiva e contestataria di Castelporziano, la folla ammutolisce. Trevi così descrive questo dialogo muto tra folla e poesia: «La cosiddetta “realtà” è una stratificazione infinita di realtà particolari, e la più grande consolazione della vita consiste nel rendersi conto che in qualunque situazione possono coesistere dimensioni inconciliabili dell’umano, forme di grandezza imperturbabili, regni che nessuno può violare come quello delimitato dalla voce di Amelia mentre leggeva la sua poesia». Trevi decifra apparizioni come questa perché appartiene al loro stesso non appartenere. O meglio, al loro stesso appartenere all’arte, che è vera e profonda libertà, anche di stupirsi della propria opera, anche di essere contraddetti dalla propria opera, se Sogni e favole è soprattutto un canto di ammirazione e gratitudine per quelli che sono proprio quel che sono. Inalienabili e interi.

Emanuele Trevi, Sogni e favole, Ponte alle Grazie 2018

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