Emily Dickinson (7Corriere, 27.6.19)
Emily Dickinson è un pianeta, una nave che solca l’orizzonte e scompare (7Corriere, 27 giugno 2019)
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Emily Dickinson è un pianeta.
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Un pianeta che barbaglia nello spazio e scompare.
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Emily Dickinson è una nave.
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Una nave maestosa, illuminata di luce propria, che solca l’orizzonte e scompare.
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E questo scomparire lascia un segno indelebile in chi osserva, l’impressione di aver visto qualcosa di oltreumano, di aver avuto contatto con un mondo che precede il mondo.
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Eppure, la traccia è fatta solo di parole. La lampada che Dickinson accende è fatta solo di parole. Poche parole, semplici, quotidiane: che dicono dell’erba, del mare, delle api, dell’amore degli uomini e di una loro assenza così profonda da portare al centro della presenza. Quando si tocca un’assenza assoluta, l’assenza si rovescia nel suo contrario, nell’abilità di colmare il vuoto con una presenza inconsumabile, alla quale diamo, a volte, un nome maiuscolo.
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Le parole di Emily Dickinson sono così vuote da traboccare.
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Le parole di Emily Dickinson sono magneti.
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Parole-calamita, che fanno vivere anche il bianco della pagina e raccolgono dall’aria delle nostre stanze le particelle d’anima che, senza accorgercene, perdiamo tutti i giorni, come senza dolore perdiamo cellule epiteliali, su ogni superficie sfiorata.
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La poesia di Dickinson raduna le particole della nostra anima disperse nell’aria. E le riattiva, le rimette in moto.
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Lei fa esattamente quello che suggerisce di fare, coincide al millimetro con la propria poetica: «Accendere una lampada e sparire – / Questo fanno i poeti –».
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Dice benissimo di lei l’ardito e “comunicativo” poeta newyorkese Billy Collins che, in Spogliando Emily Dickinson, immagina di fare proprio quello che suggerisce il titolo della poesia: liberare lentamente il corpo di Emily dai vestiti, spingere il pensiero nell’impensabile, per poi trovare, alla fine dell’esperienza-Dickinson, l’occhio giallo di un fucile puntato.
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Perché le parole di questa signorinella in crinolina bianca sono pallottole.
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La poesia non è roba per signorine, lo sappiamo da sempre. Tanto meno la poesia di Emily Dickinson. Così Collins, negli anni Duemila, può riutilizzare nei propri versi gli inconsumabili versi di Dickinson: «La Speranza è quella cosa piumata», «E poi un’Asse nella Ragione, si spezzò» e, infine: «La mia vita era stata un fucile carico».
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Proprio a causa della ritrosia ribelle della poesia dickinsoniana, non ho particolarmente amato la resa cinematografica della sua vita da parte del regista Terence Davies, che ha condito la selvatichezza di Dickinson con un’incessante infelicità nervosa, crisi d’incertezza e insoddisfazione di sé. Una donna come quella descritta da Davies non avrebbe scritto inni alla vita di potenza esplosiva come quelli che ha invece scritto la vera Emily. Non è infatti l’insoddisfazione, che spinge Emily Dickinson a nascondere agli occhi del mondo la propria opera, è un «imperdonabile» (per dirla con Cristina Campo) sprezzo del “mondo mondano”.
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Il corpo intero delle poesie di Dickinson, composto da 1775 testi, viene scoperto dalla sorella una settimana dopo la morte di Emily: sono versi scritti su foglietti, margini e frammenti di carta, come appunti di folgorazioni che la coglievano ovunque si trovasse. Emily li aveva conservati in un raccoglitore in legno di ciliegio. Una donna frustrata e nevrastenica avrebbe sventolato sotto il naso dei suoi contemporanei ogni verso stillato dalla propria penna.
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L’eccezionalità di Emily non va confusa con quella, più stizzita, di Victoria Aganoor, italiana di origine armena, di vent’anni più giovane di Dickinson e anch’essa poetessa, ma col “difetto” della perfezione. Aganoor, dopo aver conosciuto la dolcezza del canto, ha conosciuto il sentimento della perdita, proprio come Dickinson. Ma Dickinson si lascia essere imperfetta, aderisce all’umana imperfezione con tutta sé stessa e canta l’amore con un’appassionata blasfemia: «poiché tu hai saturato la mia vista / e io non ho avuto più occhi / per una perfezione così squallida / come è il Paradiso».
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Anche i suoi trattini – come api che ronzano in mezzo ai versi – sono pause impure, estorte al silenzio. Sono l’invenzione di un “quasi” silenzio. Eppure sono nitidissimi, precisi come piccole lame, o pungiglioni.
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Dentro lei c’è una forza selvaggia e indomabile, come afferma chiunque l’abbia incontrata, un fervore, che emerge chiarissimo da quello che lei stessa scrive di sé lettrice di poesia: «se leggo un libro e mi sento gelare in tutto il corpo così che nessun fuoco mi può scaldare, allora so che quella è poesia». E, in effetti, non esistono altri criteri che quelli fisici, per constatare la presenza o meno della forza perturbante e misteriosa che chiamiamo poesia.
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Emily non tocca niente e nessuno, eppure conosce profondamente il mondo, scrive parole di comprensione integrale per i morti di tutte le guerre, che vengono citate nel Giovane Holden da Salinger e preferite di gran lunga all’inneggiare patriottico delle poesie di Rupert Brook. Dickinson annulla il trito concetto di Patria per sostituirlo con quello di Mondo, di Umanità aperta. Il suo immaginare è eresia, libertà di pensiero, impossibilità di piegarsi alla norma puritana.
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Dal suo angolo di mondo, attraverso l’esercizio incessante della scrittura, Dickinson arriva a conoscere il mondo per noi, meglio di noi che lo affrontiamo nel quotidiano faccia a faccia: da quella prospettiva e da quella prescelta lontananza, lei è capace di vedere le cose nella loro interezza, di captare anche la parte invisibile del «reale», nel quale ci dibattiamo. Dickinson lascia un utilissimo corpus poetico, che lei stessa chiama «la mia lettera al mondo», il suo messaggio consegnato «a mani per me invisibili» e che oggi sono le nostre.
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Emily ha scoperto un tesoro, che ancora oggi ci consegna intero: la semplice felicità di rimanere in sé e – da quel punto di vista non comune – irradiare sul mondo. Ma piano, al momento giusto, se arriva a scrivere (e a te, Emily, come a un’amica di tutta la vita, lascio l’ultima, folgorante parola): «La verità deve abbagliare gradualmente / O tutti sarebbero ciechi».
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