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Nella poesia c’è il “noi” più vero (7Corriere, 5.7.19)

Vivere con la poesia significa vivere come tutti e, soprattutto, con tutti.

In che senso?

Nel senso che il poeta scrive in forma musicale quello che sentiamo tutti.

Ma, a differenza della musica fatta con le note, col puro suono, la poesia è fatta con le parole, e le parole hanno un senso semantico e, dunque, evocativo.

Le parole significano, non sono solo suono.

Dove ci porta il senso delle parole musicali della poesia?

Al desiderio, all’umanità.

Cioè nel punto esatto dove tutti ci somigliamo, dove la mia persona coincide con la tua persona. Dico proprio la mia che scrivo con la tua che ora leggi.

Possiamo chiamare questa prima, fondamentale funzione: «compassione», nel senso etimologico di “sentire insieme”.

Ma la poesia sorprende anche chi la scrive. Anche la me stessa che scrive suggerirà qualcosa alla me stessa che poi leggerà, perché le parole della poesia, incatenate l’una all’altra dal proprio stesso suono, portano il poeta in luoghi dove mai avrebbe immaginato di arrivare.

Per lo più, fuori di sé. E, prima o poi, lo fanno nascere al mondo.

Date queste premesse, è semplice comprendere quale possa essere il valore sociale della poesia.

Al di là delle specificità delle linee di poetica, che in questo difficile momento sociale ci lasciano indifferenti, possiamo azzardare che la poesia ci aiuti a riconoscere i nostri desideri e i nostri sentimenti e ci aiuti a comprendere che quei desideri e quei sentimenti sono contenuti anche nella persona che ci sta di fronte, chiunque essa sia. In 7 parole e mezzo: la poesia ci aiuta a vedere l’altro.

In senso più esteso, ci aiuta ad ammirare la completezza di visibile e invisibile in quella che convenzionalmente definiamo «realtà» e che, come intuiamo senza dubbio, non si limita a essere pura superficie.

La poesia è dunque specchio di chi la legge, specchio dell’umanità di chi è intorno a chi la legge e un faro puntato sulla profondità e sulla complessità del reale.

Ma una piccola serie di parole come può racchiudere tanta potenza?

Ho già scritto del ritmo musicale “sensato”. Aggiungiamo una spezia fondamentale: la quota di silenzio che il poeta mette fra le parole.

In quel silenzio, nello spazio bianco posto ad arte fra le parole, il lettore – consapevolmente, ma anche inconsapevolmente – costruisce il suo mondo, lo spettacolo fatto dalle associazioni che le parole che sta leggendo gli evocano.

Questo argomento funziona anche con la poesia in prosa.

Se ne deduce che la lettura di una poesia, nel momento in cui cade nell’esperienza biografica di un lettore, non è mai uguale a quella di un secondo o terzo lettore. E la lettura non è mai uguale neanche se noi stessi leggiamo una poesia a distanza di tempo.

Sono sicura che è successo anche a voi di comprendere all’improvviso un testo che fino a un anno fa non vi parlava. È perché nel frattempo siamo cambiati, o abbiamo acquisito un’esperienza nuova che il poeta, quando ha scritto i suoi versi, aveva compreso, prima di noi e per noi, perché noi ci sentissimo compresi, leggendolo.

Dunque la poesia ci guarda da molto vicino, ci riguarda. Parla di noi, parla anche di quello che di noi ancora non sappiamo, perché i poeti spendono tutto il tempo della propria vita a scavare dentro sentimenti ed emozioni, derivate dalla natura o dall’intelligenza.

Il poeta svedese Tomas Tranströmer, vincitore nel 2011 del Premio Nobel per la letteratura, ha scritto che la poesia è sempre «traduzione di una lingua invisibile». Quella lingua invisibile è forse quella preverbale del lattante che tutti abbiamo “parlato”, è forse il luminoso Intelletto d’amore di Dante, al quale sarebbe una gioia riuscire ad accedere stabilmente.

Di certo è una lingua che ci tocca e comprendiamo per istinto, perché è la lingua musicale dalla quale proveniamo ed è anche la lingua delle nostre molecole, così simile al rombo primario delle stelle.

La poesia parla la lingua del corpo, che risuona del suono molecolare delle stelle, come afferma anche la scienza, modificando lievemente l’antica intuizione shakespeariana «Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni».

I bambini capiscono benissimo questa cosa. È una gioia vedere i loro occhi sgranati, ogni volta che mi trovo nelle scuole elementari per un laboratorio di poesia. E ogni volta comprendo tutto di nuovo, insieme a loro.

Anche questo ripetersi per sempre nuova, è uno dei miracoli della poesia, che Pasolini chiamava perciò «merce inconsumabile».

Oggi leggiamo il Notturno di Alcmane o la Commedia di Dante e le comprendiamo, vediamo il mondo con gli occhi di quei grandi poeti.

E questa è l’ultima, importantissima, funzione sociale della poesia: tirarci fuori dal tempo, dalle fake-news della propaganda e del mercato, dalla logica frenetica della merce, trasferendoci in un luogo che sente di eterno ed è immutabile, da quando nasciamo.

Ognuno conosce quel luogo dentro di sé, dove è lo stesso da sempre.

La poesia abita accanto a quel sé stesso immutabile.

E specchia lacrime, euforia e sorrisi di quel che resta per sempre fuori dal tempo. Ed è il «noi» più vero.

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