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Menabò (10.20)

intervista di Renato Fiorito

1)    Vorrei iniziare questa chiacchierata chiedendole del suo ultimo lavoro: Giardino della gioia edito da Mondadori 2019 – 2020, perché mi sembra che esso rappresenti una svolta importante nella sua carriera e la consacri definitivamente, anche agli occhi del grande pubblico, come una delle figure più rappresentative della letteratura italiana di questo inizio millennio. Cosa l’ha spinta a scrivere il libro e come si colloca nello sviluppo del suo discorso poetico?

Innanzi tutto grazie per le sue parole. E grazie per aver scritto “letteratura” e non “poesia”, perché mi offre l’occasione di dire immediatamente che desidero aprire la gabbia nella quale la poesia si è autoreclusa, parlando solo ai suoi specializzatissimi adepti, chiudendosi in diatribe fra intenditori e smettendo di parlare al suo popolo. Avevo già sperimentato la tecnica di montaggio di Giardino della gioia con il libro precedente, Il bene morale: libri non tematici ma compositi, che intendono raccogliere molteplici forme espressive dell’umano. Credo che la poesia possa spingersi a essere inchiesta giudiziaria, mantenendo la stessa dignità della lirica amorosa.

2)    Giardino della gioia è un libro ricco di tenerezza e umanità, libro di contrasto tra anima e carnalità, miseria del vivere e sua felicità, tragedia del male e ansia di riscatto. Se queste sono le caratteristiche più evidenti, ci aiuti a coglierne qualche aspetto più nascosto e segreto.

Posso osare dire che si tratta anche di un libro di narrativa, dotato di trama: il macrotesto parla infatti dapprima di amore, poi di una rovinosa caduta nel disamore e, quindi, analizza la nostra possibilità di compiere il male – che dipende dalla incapacità di identificarsi con l’altro da sé. Alla fine, arriva l’auspicabile scoperta del “puro esistere”, ovvero la gioia – troppo spesso trascurata – d’essere vivi, che arriva a sostituire la maligna pretesa d’essere amati. Un altro elemento che m’interessa è l’ironia, a volte quasi la comicità.

3)     Nonostante il suo titolo, che richiama l’idea del giardino e della gioia, e dunque della bellezza, il libro parla soprattutto del dolore del mondo. Le chiedo se l’apparente contraddizione si può spiegare col fatto che lei indica un percorso, suggerendo l’idea che la consapevolezza della gioia nasce solo dopo che si è sperimentato il dolore.

Proprio così. Parlo di una gioia solidale, lieve, consapevole e stabile, conquistata non avendo paura di affrontare la quota di sofferenza che la vita assegna a ciascun vivente. Se diamo per ovvio che vivere implica una parte di male e dolore, riusciamo forse a smettere di lagnarcene: la meta della consapevolezza non è, infatti, produrre un incessante lagno sulla raggiunta constatazione del male di esistere, ma comportarsi come la funzione-“ginestra”, per usare la decisiva immagine del poeta più banalmente associato all’idea di dolore, Leopardi. Il leopardiano il fiore del deserto, il fiore sul quale incombe il Vesuvio distruttore, a differenza degli uomini non spreca il tempo della propria unica vita a edificare la propria impossibile immortalità, ma impiega il tempo della propria unica vita a profumare, a fare cioè del proprio meglio per rendere più dolce la vita di tutti, fondando così, senza troppi proclami né pretese di gloria, la “social catena”, sola possibilità di resistere al male naturale.

4)    Il suo impegno culturale e sociale nelle scuole, nelle carceri, tra i migranti e gli abbandonati, è noto ed esemplare. Qual è l’arricchimento che le viene da queste esperienze?

Proprio ieri, 26 giugno, durante un webinar, la neuroscienziata Cinzia Di Dio ha spiegato che le esperienze estetica ed empatica attivano le stesse aree del nostro cervello. Il processo estetico ci rende addirittura fisicamente disponibili all’empatia. Se quella particolare emozione bio-cognitiva permane, origina la compassione, la quale induce a comportamenti che la scienza definisce «prosociali». Quello che certi poeti scrivono da millenni può ora avvalersi di prove scientifiche: è oggi scientificamente comprovato che l’arte fa bene alla costruzione della “social catena” di cui sopra. Certo, non so su quali opere sia stato fatto l’esperimento e sarebbe interessante vedere quali aree del cervello attivino capolavori disturbanti come Tetsuo o la filmografia di Cronenberg o i libri di Céline, che pure sono opere grandiose. Ma teniamo intanto per buona l’importante informazione iniziale, della quale è assolutamente vero anche il contrario, cioè che la socialità fa bene all’arte e ce ne siamo accorti con chiarezza in questi giorni di clausura, che hanno ridotto molti poeti al silenzio. Ogni esperienza sedimentata, come scriveva Rilke, diventa poesia. Tanto più le esperienze che ci portano fuori dal nostro consueto, abitabile e ormai noto mondo.

5)    Il dramma dei profughi, degli immigrati, è spesso trattato con insofferenza e ostilità. Molti ritengono che l’entità della crisi dei paesi poveri sia così grande e profonda, che non si possa fare nulla per risolverla e che perciò faremmo meglio a proteggere i nostri livelli di benessere senza lasciarci coinvolgere dal disastro. Qual è il suo parere in proposito?

Ho un sentimento del mondo che non mi permette di distinguere tra “noi” e “loro”. Certo, se mi occupassi di politica, non potrei risolvere l’argomento con queste parole, ma ragionerei comunque nella direzione della più larga e concreta accoglienza possibile. 

6)     Con il Covid 19 tutti ci siamo scoperti più fragili e interdipendenti. Il virus ha fermato l’economia e ci ha isolati fisicamente, ma ci ha anche mostrato un mondo diverso, meno inquinato, più solidale e rispettoso. Secondo lei un mondo diverso è ora possibile?

Non credo: in Italia e quasi ovunque, nel mondo, le decisioni intorno al cosìdetto lock-down sono state dettate esclusivamente da ragioni economiche. In Italia, abbiamo chiuso troppo tardi e riaperto troppo presto, per non colare definitivamente a picco. La rivoluzionaria scoperta della nostra propria mortalità temo verrà presto rimossa e ognuno tornerà a essere (e dunque ad agire) come prima. Forse una maggiore attenzione alle arti può insinuarsi nella crepa, fin che dura la crepa.

7)     La tendenza che si sta affermando nella poesia contemporanea è antilirica, a causa di una affermata incapacità dell’io lirico a manifestarsi in un contesto di isolamento e disumanizzazione. Eppure lei, in “Serie fossile”, ha scritto: “io cerco che la vita sia all’altezza del canto. È questa la sventura e questo è il bene.”  (pag 105) Possiamo interpretare questo bellissimo verso come un atto di ribellione e di fiducia nella vita e nella poesia?

Ognuno fa quel che è. Do per scontato che la realtà, per noi, esista solo sotto forma di ciò che siamo in grado di percepire, di essa. Io sono semplicemente nata così: fiduciosa e ribelle, come qui sintetizzato. Spesso ostinatamente e ottusamente, al di là dell’evidenza. Altri preferiscono fermare lo sguardo alla “pura superficie” (è lo stesso discorso fatto per la ginestra). A me la pura superficie non basta, sento il bisogno di vedere oltre, peraltro dubitando che questo “oltre” esista. Due giorni fa ho concluso una specie di mémoire e ho quindi un vivo ricordo della mia infanzia: posso far risalire questa attitudine alla mia stessa natura, visto che da piccola smontavo le bambole, per scoprirne i meccanismi segreti. Così rispondo anche alle affermazioni grottesche di Raffaele Morelli sul femminile…

8)     Fa tendenza, specie in Italia, una poesia oscura, enigmatica, di difficile se non impossibile comprensione poiché alcuni ritengono che una scrittura chiara sia da considerare elementare e ingenua. Secondo lei recuperare chiarezza poetica è un difetto o una conquista?

Anch’io pensavo che la chiarezza fosse superficiale e che bisognasse dimostrare incessantemente la propria perizia e la propria intelligenza. Sono fasi. Adesso credo che chi ha pensato bene e lungamente ha formato in sé pensieri chiari e può esprimere concetti anche molto complessi in parole comprensibili ai bambini. È un’abilità che si acquisisce col tempo e con l’esperienza.

9)    Nella vita di ogni persona viene il momento dell’abbandono, del disamore, della vita che volta le spalle. La poesia può essere d’aiuto in quei momenti?

Dipende da quanto è devastante il disamore. In alcuni momenti non possiamo essere raggiunti da niente se non dal dolore. Successivamente la poesia, come esperienza di condivisione universale, può forse levarci dal senso di solitudine, altrettanto universale.

10)    Ci sono centinaia di tentativi di definire una cosa indefinibile come la poesia. Una volta tuttavia le ho sentito dire, commentando una poesia di Giorgio Caproni, che la poesia “salva dalla caduta nell’indifferenziato, dalla dimenticanza” e ho trovato questa una lucida e struggente definizione. Vorrei perciò chiudere questa intervista, di cui le sono molto grato, con una sua considerazione sulla funzione della poesia e la sua capacità di andare oltre i limiti che ci sono dati.

La poesia (la scrittura, posso affermare, dopo la seconda esperienza in prosa) ha la capacità di costruire mondi quasi più concreti di quello cosìdetto reale (vedi sopra le considerazioni sulla cosìdetta realtà), indaga l’invisibile e porta alla piena luce cose sommerse. Nell’esempio che cita: Giorgio Caproni con Il seme del piangere (a mio parere una delle operazioni poetiche più intelligenti del Novecento italiano) ha consegnato e, sì, salvato dalla dimenticanza l’ormai indimenticabile figura della madre, Anna Picchi. Questa è una funzione materna agita da un figlio: salvare la madre dall’indifferenziato e dall’indifferenza della natura, per la quale non siamo che vita che si aggiunge, o toglie, a vita. Caproni salva la madre attraverso la poesia, dunque con uno strumento che altri possono adoperare per ricordare, vedere e amare le proprie madri. Questo fenomeno vale per tutto ciò che la poesia tocca: cose e persone, visibili e invisibili. Non le pare una cosa utilissima?

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