Rizzacasa d’Orsogna Costanza (NI 24.10.20)
Il libro di Costanza Rizzacasa d’Orsogna parla a ciascun lettore, instaura e intrattiene un dialogo privato con chi legge. Quando il libro si chiude, ci pare di conoscere Matilde (la persona che nel libro dice «io»), ci pare di avere conquistato una nuova amica, della quale vorremmo continuare a seguire le vicende. Non la vicenda della sua obesità, benché l’argomento in letteratura sia raro e dunque molto interessante, ma l’intera sua vicenda umana di emancipazione progressiva, come è la vicenda di tutti.
La scrittura segue gli anfratti e le esplosioni del disturbo alimentare del quale parla: è sovrabbondante, iperemotiva e, nello stesso tempo, chirurgica, tagliente, esattissima. Coraggiosa dunque, avvolgente dunque: sicura, spudorata, quasi violenta. Chi scrive tratta chi legge con la stessa schiettezza con la quale tratta sé stessa.
La nudità perturbante di Matilde viene dalla poesia, alla quale l’ha instradata la madre, facendole riempire quaderni di versi copiati a mano. Matilde ha poi camminato da sola, eleggendo a suoi numi tutelari la democratica e rivoluzionaria poetessa statunitense Edna St.Vincent Millay e il misterioso, metafisico Robert Frost. Una compromissione permanente tra l’ombra umana e la musica segreta del così detto «reale», insomma.
Dall’abitudine mentale alla poesia, come modo di pensare i legami di tutto con tutto, viene anche il procedimento analogico di Matilde, fatto di slittamenti temporali, salti emotivi e di un sentimento di progressiva, conquistata compassione.
Si diventa adulti quando si riescono a considerare i propri genitori come creature indipendenti, non solo come portatori di bene e male per noi figli. Allora Matilde scrive «povera mamma», perché riesce oggi ad assumere nel proprio sguardo e nel proprio dantesco «intelletto d’amore» la parabola intera della vita di quella creatura che le ha dato vita: una donna a sua volta molto dotata, ma che ha avuto difficoltà a realizzare i propri talenti, poiché donna in tempi di più grandi stereotipi e noncuranza per le dinamiche emotive. Nelle descrizioni della figura materna ci sono adesso una malinconia grande e un altrettanto grande amore.
Nella storia della relazione tra sé e la madre, percepita e descritta da Matilde, esiste un prima, un ormai inarrivabile e solare paradiso perduto, e un dopo, esiste un tempo in cui l’amore era certo e poi un tempo del distacco, della violenza, del dileggio, di una competizione che si spinge fin quasi all’odio. Il giro di boa viene tradizionalmente indicato nella nascita del fratello, ma capiamo che la svolta è interiore, sta nella narrazione che di sé stessa fa la madre, negli obiettivi da lei non raggiunti, apparentemente a causa della nascita dei figli. Così lascia intendere il bellissimo narciso che Matilde ha per padre.
A volte Matilde vede dunque sé stessa con gli occhi che presume siano quelli dei genitori, non si fa sconti. Salvo scoprire, più tardi, che la madre l’ha invece sempre amata e apprezzata. Il libro di Costanza Rizzacasa ammonisce ciascuno di noi su certi tragici equivoci domestici e racconta – come in diretta, con un sentire che diventa a tratti quasi infantile – il peso dello sguardo dei genitori, il potere assoluto delle parole dei genitori su ogni creatura in crescita: non stiamo dunque leggendo solo la biografia della protagonista, stiamo leggendo la biografia di chiunque sia stato figlio, specialmente se lo sguardo dei grandi sopra di lui era affaticato o ignorava il danno che il proprio stesso peso poteva arrecare. Le chiavi di molti disastri, domestici e non solo, e di molte malattie sono infatti «indifferenza o ignoranza». Occorre dunque stare coi sensori allerta, porre continuamente quella che Simone Weil definisce «attenzione», mettersi cioè il più possibile nei panni dell’altro, uscire da sé per vederlo. Soprattutto se l’altro è un figlio. O lo costringeremo a raggiungere, da solo e con fatica, un equilibrio verosimile tra come gli altri lo vedono e come egli crede che gli altri lo vedano.
Il libro di Costanza Rizzacasa è infatti il racconto, sincero e toccante, del tentativo, lungo tutta una vita, di conquistare uno sguardo per quanto possibile obiettivo sulla propria persona. Non odiarsi, non punirsi, né farsi punire da replicanti dei nostri genitori, per i presunti fallimenti, per la delusione che crediamo di rappresentare agli occhi di chi, a suo modo, come ha potuto, come è riuscito a fare, essendo anch’egli creatura ferita, ci ha tanto amato. Perché alla fine capiamo che i nostri genitori non chiedevano che di essere amati. Proprio come noi. Proprio come tutti.
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