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Alda Merini, “La lettura” de Il Corriere della Sera (21.3.21)

Ero tra quelli che si fermano alla superficie. Ero tra gli irritati dall’esposizione mediatica di Alda Merini, ma della sua poesia conoscevo solo la raffica di testi proposti dalla rete, inclusi in cornicette a fiorellini su fondi rosa confetto. Merini ha scritto di elettroshock, della disperazione di una donna derubata dei figli neonati, del proprio utero assetato di sperma dopo i mesi di detenzione manicomiale e di un amore capace di obiettare alla realtà desolante del corpo che invecchia. Che c’entra dunque Merini con l’immaginario sdolcinato su Merini? Perché la sua sovraesposizione ci scandalizza al punto da farci trascurare la lettura dei suoi versi? Il poeta, nell’immaginario del poeta stesso, deve porre sé stesso in altezzosi eremi spirituali? Perché il successo di Merini ci fa dubitare della qualità della sua poesia? Non è forse poeta chi, come Pier Paolo Pasolini, Pierluigi Cappello e Alda Merini, sa di essere persona fra persone e, soprattutto, ha sofferto talmente da abitare quell’invidiabile oltre, al quale diamo nome di libertà?

Ho aggredito l’incauto lettore con una sfilza di interrogativi perché la figura scomoda di Merini ha il merito di porre questioni radicali, di presa di posizione esistenziale, prima che di stile. Lascio esplodere un’ultima domanda: possiamo davvero distinguere tra esistenza e stile? Ero tra quelli che, fra le soluzioni stilistiche scelte per raccontare la leggenda privata sulla realtà dovuta alla divergenza che definiamo “follia”, preferiva la dissestata presa diretta di Amelia Rosselli al racconto contratto e disteso di Alda Merini. Possiamo però accogliere entrambe le risposte. Se Rosselli spacca la lingua col perturbante terremoto di lapsus e plurilinguismi, Merini affonda nella carne viva di una narratività ironica del terremoto stesso, cerca di organizzare il terremoto in una formula comunicabile. Due personalità opposte, due soluzioni opposte. Lo stile di un autore è una implicita dichiarazione della sua posizione fra le creature e le cose del mondo. Lo stile di Alda Merini è chiaro, comprensibile a tutti, ci dice che chi scrive vuol essere capito, ma anche di più: ci dice che chi scrive cerca l’amore di tutti. Se la lettura fascinosa e gutturale di Rosselli ci fa precipitare nel suo fervido, intelligentissimo e doloroso disordine, Merini prova a tenderci la mano dall’interno del mondo perturbato, compie il tentativo impossibile di spiegarlo. Non si tratta soltanto di democrazia, si tratta di una continua richiesta di risarcimento delle umiliazioni subite e anche del desiderio struggente di tornare nel paradiso perduto di un abbraccio universale, dunque infantile. Quando non ha nemmeno dodici anni, Alda aiuta la bellissima e temutissima madre a partorire sotto i bombardamenti. Così finisce la sua infanzia. Nel dopoguerra, tornata a Milano, Merini si trova invasa da una seconda lingua, che le piega le ginocchia a scrivere su pezzi di fogli raccattati fra le macerie. Una lingua paterna, perché è stato il padre a insegnarle a scrivere e a metterle sotto gli occhi la Commedia dantesca, che Alda impara a memoria, senza neanche capirla. Ma impara il ritmo, il suono di fondo di una lingua ineguagliabile, il trauma molecolare che abita chi è destinato alla scrittura come Alda, o come la sua contemporanea operaia quattordicenne Nella Nobili, che attraversa le gelide albe bolognesi per andare in fabbrica, accompagnata da un ronzio che sarebbe diventato poesia, una lingua invisibile che proviamo a tradurre, sempre per approssimazione.

Merini rimpiange per tutta la vita che le condizioni economiche della sua famiglia e gli studi forzatamente interrotti a causa della guerra non le abbiano permesso di imparare quanto avrebbe desiderato. Mi spingo a pensare che questa sia stata una salvezza, per la sua poesia, perché una maggiore consapevolezza accademica avrebbe forse smorzato lo slancio e quadrato il cerchio della libertà dei suoi versi, che invece tornano ancora e ancora su sé stessi, si riscrivono a vista, lasciando agire sulla pagina una forza viva, che deborda dalla pagina, come gli oggetti debordano dalle stanze della casa di Merini, iper-abitate dalle cose, anche in questo caso a colmare il vuoto incolmabile del tradimento primario del marito che, preso dalla rabbia, chiama un’ambulanza e ficca inconsapevolmente la sua amata Alda nella bocca dell’inferno manicomiale. Ma, in realtà, non andiamo sicuri neanche di questa associazione tra manicomio e inferno (o «inferno bianco»), perché Alda spariglia di nuovo le carte: il manicomio è Terra Santa, luogo dove vivono creature incolpevolmente estirpate dalla vita come erbacce, ma è anche il luogo dove ad Alda vengono risparmiate le incombenze quotidiane che la allontanano dalla poesia, è il luogo dove il dottor Enzo Gabrici le offre il proprio studio e una macchina da scrivere, ed è soprattutto il luogo dove Merini, per propria stessa dichiarazione, impara a salvarsi attraverso l’amore per gli altri perché, se avesse fissato lo sguardo esclusivamente sulla propria reclusione, si sarebbe tolta la vita, come molti. Invece, Alda finisce per conquistare la massima libertà espressiva, quella di fornire verità contrastanti sullo stesso episodio, riuscire dunque a sostenere la fluidità del reale, l’evidenza che le diverse versioni della realtà sono tutte vere, perché la realtà, nel momento stesso in cui viene narrata, è un mero punto di vista e tutti i punti di vista hanno eguale valore e dignità, oltre a cambiare anche nella medesima persona, assecondandone l’umore o l’interlocutore: quando Alda detta le proprie poesie, infatti, fa dei versi un uso strumentale, seduttivo oltre che economico. Possiamo allora concludere che coraggio e ironia siano le cifre della libertà organica di Merini, che impara a usare anche la società dello spettacolo per essere amata, addirittura si spoglia davanti all’obiettivo di Giuliano Grittini, a mostrare finalmente per scelta la propria nuda carne e non più perché manomessa da azioni altrui, e si sente infine libera di prendersi gioco anche della propria poesia, cioè della propria stessa anima, definendola alla fine una «sindrome di accomodamento» per sopportare l’ingiuria inseparabile dal vivere, proprio come scrive Nikos Kazantzakis di Zorba il greco, che sa «beffarsi della propria anima, come se avesse dentro di sé una forza superiore all’anima stessa». E questo è tutto.

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