Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012)
Guarda che la carne non tocchi la carne
(Sant’Anna di Stazzema, 12 agosto 1944)
Quella mattina presto, camminando
come quando dal colle si capisce che tutto il paese è illuminato dal
[primo fuoco
delle cucine, sentimmo rintoccare le campane
e abbiamo atteso.
Quando rincasarono gli uomini ci furono sobbalzi
di corpi e vetro e il suo sguardo divenne una terra disabitata.
In tanti aprivano la bocca e vennero
arsi com’erano. Una catasta di 100
bambini venne bruciata con il lanciafiamme
sulle strade
con le rose, quella strada bellissima
con le rose. Io rileggo la lista dei nomi
fino a vedere emergere ogni sorriso
dal suo rigo di cenere.
Il governo mi diede 47.250 lire
per risarcirmi del fatto
che a sette anni avevo avuto addosso come uno spruzzo d’acqua
benedetta mia madre. La sua testa
come un bello strumento scomposto. Torno dietro la casa tutti i giorni
per via dell’orto
e per sentire come apertamente si comportano i laghi, i migratori.
La domenica riempie di sole le mura
del paese e nell’odore di pane
ricordiamo le scariche sui campi
lavorati e lei nascosta tra le damigiane e quanto forte
la sua voce macchiasse l’aria chiamando il mio nome
perché partiva poco sopra la cassa di risonanza del cuore.
Tutto il suo corpo venne rivelato dal mio nome.
Io in una solitudine perfetta porto
in me muro con crepe
nelle quali scorre
purissima la gioia ma non cercarmi
altrove, sono queste parole.
Quando la morte si confonde con l’incoronazione
– scomparsa della Bestia –
Io mi provo ogni giorno fino a che punto
vuoi liberarti
di me. La mia anima era
malformata, Natasha
aveva il fuoco in casa
come in un campo di detonazione
e la leggerezza dei tuoi capelli spingeva il gas verso il grano
atroce ed estraneo
una cintura rossa
che succhia le sostanze della terra nella sua massima espansione
sollevata dal sole delle tue mani
già piene di polvere e bellezza.
Io sono la Ridotta
alla misura dei tuoi pensieri.
Non ti farò domande
quando verrai ma tu abbi pietà di questo dolore.
Sono
viva e sommersa. Inviolata. Niente
cattura le voci
là fuori – signore – non una
voce capirebbe l’amore
ammalato ma amore
che mi hai insegnato.
Sono sepolto sotto falso nome – io come tu volevi
sono
decapitato – ora
che tu – come io volevo – domini
il mondo. Cosa
Natasha – di questo mondo
corrisponde al tuo cuore e sarà bello.
Io sono un materiale incontaminato – il mio corpo
costituito da pochi
alimenti
bianchi e a me nascosta sotto la terra suggerivi come
ingannarti ed è finita che ti sei
scomparso come un passero sui binari.
Io mi fidavo
solo di te Natasha perché avevo la mente costantemente
occupata
da te, e tu eri
un Luogo
l’arredo
dei miei pensieri. Io
non volevo perdere i dettagli
del tuo corpo costretto a sviluppare
a sporcarsi di morte.
Ma anche oggi parlano di noi
e non voglio che nessun altro veda
quanto tu sia già in grado di fiorire
come una messe
e le foglie si formano dove tu manchi.
Questo è perché io sono
la Presunta
– questo è perché io piango
la morte che ho causato e ardo
un cero sul tuo corpo come un codice alieno mentre loro
fanno odori
forti, certe volte profumano come altari.
Come la bestia santa io diffondevo
il canto del guardiano – eravamo
forme di esseri incamerati
alla roccia, l’enormità di un organismo
con il capo coperto
una casa posata sulla morte, due brevi
spasimi di violino e se non l’ho mai detto immensamente
io ti amavo e mi sono sconfitto
sotto forma di turbine di calce ora che sei
sotto gli occhi di tutti e interrompi chi parla
perché la bestia
ha marchiato la tua bocca con il suo silenzio.
Roma, 19 giugno 2007
poesia dedicata al rapporto tra Natasha Kampush, di dieci anni, e il suo rapitore trentaseienne Wolfgang Priklopil. La loro reciproca dipendenza si è conclusa dopo otto anni con la fuga di lei e il suicidio di lui.
Estratti critici
Alfonso Berardinelli, Poesia maschia, “il foglio”, 21.7.12 – Nelle scienze, nelle arti, in letteratura, in poesia, l’essere donna è una categoria aprioristica o solo uno dei tanti criteri interpretativi? Chi legge Céline, Benn, William C. Williams ricorderà che erano medici. L’origine nobile, altoborghese o proletaria ha certo lasciato tracce nell’opera di Thomas Mann, di D. H. Lawrence, Nabokov, Jòzsef, Camus, Miguel Hernandez. L’omosessualità di Oscar Wilde e di Pasolini è leggibile nel la loro opera, quella di Auden no. Ma che cosa si ottiene a dividere gli scrittori in medici nobili, proletari, omosessuali? QuaÌche anno fa, parlando a Radio3 di poesia italiana contemporanea, mi venne naturale fare alcun i nomi: Alida Airaghi, Anna Maria Carpi, Patrizia Caval li Alba Donati, Bianca Tarozzi, Patrizia Valduga. Mi fu subito chiesto: “Come mai tutte donne? Preferisce la poesia femminile?”. Risposi che non mi ero accorto che fossero tutte donne e rilanciai: “Se avessi nominato altrettanti uomini, qualcuno avrebbe notato che erano uomini?” Proporrei di superare una volta per tutte il problema, dato che in letteratura questo problema ormai non c’è. Nelle storie della letteratura inglese non viene riservato un capitolo a parte per Jane Austen, le sorelle Bronte, Gorge Eliot, Virginia Woolf, Katherine Mansfield. Né si fa molto caso che i due vertici della poesia americana dell’Ottocento siano stati un omosessuale e una donna, Walt Whitman e Emily Dickinson. In Italia Elsa Morante non ha avuto una facile fortuna, ma neppure gli altri due maggiori narratori del Novecento, Svevo e Gadda. In Russia Achmatova e Cvetaeva fanno gruppo con Blok, Chlebnikov, Majakovskij, Pasternak, Esenin, Mandel’stam: le differenze formali e di carattere ci sono, ma si notano tra ognuno di loro e ogni altro più che fra uomini e donne. Quando all’inizio degli anni Sessanta comparvero come una rivelazione le poesie di Amelia Rosselli, prima in rivista e poi in volume, nessuno si mise a discutere del fatto che non erano scritte da un uomo. Negli ultimi due decenni anche in Italia le scrittrici abbondano, in prosa e in versi. Perché l’ultimo volume Einaudi “Nuovi poeti italiani”, a cura di Giovanna Rosadini, lei stessa notevole poeta, comprende per scelta deliberata dodici poetesse in quanto la loro sarebbe “scrittura femminile”? Nessuno, credo, dovrebbe prendersi dei meriti o demeriti letterari particolari per il fatto di essere maschio o femmina, credente o ateo, conservatore o riformista, estroverso o introverso. Nella sua ampia nota introduttiva, un saggio più che una nota, la Rosadini scrive che le dodici poetesse sono state scelte perché “accomunate da un criterio qualitativo più che di gusto personale” (gusto della curatrice o delle autrici?) e “naturalmente non esauriscono il catalogo della scrittura femminile in versi praticata oggi in Italia”. Poche righe dopo arriva la domanda “Si può parlare di una specificità femminile in poesia?” A questa domanda si risponde citando una affermazione di Amelia Rosselli: “Scrivere è chiedersi come è fatto il mondo: quando sai come è fatto forse non hai più bisogno di scrivere”. Questa frase, più che come un principio generale, andrebbe interpretata pensando alla poesia della Rosselli (definita “la maestra di tutte”) che effettivamente è una ricerca conoscitiva eroica su come è fatto il mondo e su cosa significhi ciò che avviene, le situazioni e gli incontri. Questa ricerca conoscitiva era per lei, più o meno come in Kafka, una questione di vita o di morte. Si potrebbe aggiungere: questa non è una caratteristica generale della scrittura femminile (ammesso che esista come categoria letteraria): è solo un fenomeno che può verificarsi in certi periodi e in poeti per i quali l’intelligenza si presenta come una necessità. In effetti oggi in Italia le donne (almeno in poesia) sono di solito più intelligenti degli uomini. Ma in passato la tradizione del poeta intelligente e conoscitivo non era un’eccezione, era la norma, da Leopardi a Saba, da Montale a Caproni.
Roberto Galaverni, La musica delle donne in versi, “La Lettura”, “Corriere della Sera”, 22.7.12
Roberto Galaverni, “La musica delle donne in versi”
Andrea Cortellessa, La parola-corpo, al femminile, “il manifesto”, 9.8.12 – Con la sua avversione «texana» (direbbe Alain Badiou) nei confronti di qualsiasi pensiero teorico (o forse pensiero tout court) col quale ci si azzardi a leggere poesia – attitudine che riduce, chi la coltivi, a passivo succube di perniciosi «teorici moderni o postmoderni» – Matteo Marchesini ha stroncato con virulenza, sul Sole 24 ore, un’antologia di poesia da poco uscita nella collana «bianca» Einaudi (Nuovi poeti italiani 6, a cura di Giovanna Rosadini, pp. XVIII-301, euro 16). La stessa raccolta ha sollevato obiezioni più garbate (ma più di sostanza) in due critici di poesia ben più autorevoli, Roberto Galaverni (sulla Lettura del Corriere della Sera) e Alfonso Berardinelli (sul Foglio).
Se è raro che tanto si parli d’un libro di poesia, pressoché unico è che si sollevino tante perplessità. Ed è un bene: nel tempo in cui di poesia (dopo un periodo, verso la metà del decennio scorso, di nuova discussione critica) s’è invece tornato a parlare – quelle rarissime volte che lo si fa – in termini meramente occasionali promozionali (la rubrica di Galaverni sulla Lettura rappresenta una lodevole eccezione). Ma si capisce, tanta levata di scudi, non appena si viene a sapere che il sesto «quaderno» einaudiano ha deciso di includere, stavolta, solo poeti di sesso femminile (Alida Airaghi, Daniela Attanasio, Antonella Bukovaz, Maria Grazia Calandrone, Chandra Livia Candiani, Gabriela Fantato, Giovanna Frene, Isabella Leardini, Laura Liberale, Franca Mancinelli, Laura Pugno e Rossella Tempesta).
Ora, se c’è un assunto tenuto per fermo (proprio da quella critica «accademica» che a Marchesini fa correre la mano alla pistola) è il caveat di Gianfranco Contini che in un «a parte» dell’Excursus continuo su Tonino Guerra (saggio del ’71 compreso in Ultimi esercizî ed elzeviri) recisamente escludeva «l’esistenza categoriale d’una “poesia dialettale”, non avendo i “migliori poeti dialettali” molto maggior dignità epistemologica, poniamo, delle “migliori poetesse” ossia “poeti di sesso femminile”» (bisogna dire che Einaudi è recidiva, nel tradire il suo antico mentore: se è vero che la precedente Nuovi poeti italiani, curata nel 2004 da Franco Loi, accoglieva solo poeti in dialetto). Le intemperanze di Contini erano leggendarie e quandoque, come si vede, gli prendevano la mano. Proditorio non riconoscere la specificità della poesia in dialetto: si sarebbe visto di lì a poco, nel medesimo santarcangiolese di Guerra, un discepolo di gran lunga superiore al maestro quale Raffaello Baldini; più in generale il movimento «neodialettale», fra anni Settanta e Ottanta, è stato uno dei fatti più rilevanti della nostra poesia. Se non altro perché certe marche identitarie creano «minoranze» e «residenze» – frequentazioni di autori, insomma – che cementano eccome genealogie e «influenze reci- proche», come dice Rosadini.
Ma rifiutare con tanto sprezzo la categoria «poeti di sesso femminile» (il che continua a fare uno non così devoto a Contini come Berardinelli, nell’affermare che «questo problema ormai non c’è») aveva un intento vieppiù polemico, all’indomani del ’68: quando l’identità femminile veniva in primo piano come problema storico (tanto più in una letteratura che nei suoi secoli più ricchi – il Cinquecento e il Novecento – ha conosciuto una quantità di poetesse rilevanti senza paragoni nelle altre) nonché appunto «epistemologico» (stavo per dire «teorico», poi al pensiero del cinturone di Marchesini mi si è mozzata la lingua), oltre che naturalmente politico. E credo di capire cosa lo motivasse: il pregiudizio annoso, ma tuttora ben attestato (e infatti perdurante, purtroppo, nelle pagine introduttive di Rosadini), d’una poesia delle donne che «si nutra» anzitutto «di vissuto e di esperienza», che faccia «un uso emotivo, istintivo della lingua», che sia caratterizzata da «una sostanziale libertà formale scevra di retorica e di artifici» capace di dare accesso – al contrario della poesia maschile, si capisce, intellettualistica e formalistica – alla «dimensione semplice, non mediata, dell’esistenza» (tutte espressioni che Rosadini dedica non a caso alle autrici meno indispensabili fra quelle incluse).
Chi meglio espresse tale nefasto pregiudizio, proprio negli anni dell’anatema continiano, fu Dacia Maraini: «una donna che scrive poesie e sa di / essere donna, non può che tenersi attaccata / stretta ai contenuti perché la sofisticazione / delle forme è una cosa che riguarda il potere / e il potere che ha la donna è sempre un / non-potere, una eredità scottante e mai del tutto sua» (traggo la citazione dalla documentata tesi di Ambra Zorat, citata anche da Rosadini e consultabile in rete).
Il problema non può essere di contenuti in quanto tali. Altrimenti davvero un’antologia di poeti donne non avrebbe un senso molto maggiore che una di poeti dai capelli biondi. Quanto fa in parte un’occasione mancata del lavoro di Rosadini (la quale sconta consimili problemi come poetessa in proprio – entro raccolte interessanti ma diseguali come Il sistema limbico e Unità di risveglio) è l’incertezza fra questo diarismo minuto e diciamo confessional, che si riduce spesso a ron ron spontaneistico e dolciastro, e una piega diversa, e ben più profonda, che davvero percorre e connota – in modo evidente a qualsiasi lettore di poesia – le ultime generazioni. E che infatti – vale la pena esplicitarlo – giustifica in pieno, al di là dei risultati, la scelta coraggiosa di un libro di sole donne.
Al questionario di Ambra Zorat risponde in modo equilibrato, su questo punto cruciale, la più sicura maestra degli ultimi anni, Antonella Anedda: «si potrebbe dire che il contenuto nelle donne è spesso così potente da dettare forme inusuali, di grande forza e originalità».
È quanto era giunta ad ammettere, dopo lunga polemica nei confronti del «piccolo alibi intimistico» (e di una critica «quasi razzisticamente femministica»), quella che – a monte di Anedda e all’origine della genealogia – Maria Grazia Calandrone riconosce quale «maestra di tutte»: Amelia Rosselli. In una delle ultime interviste concesse, per una tesi di laurea nel ’91 (quella di Rosella Inchingolo valorizzata da Florinda Fusco e ora compresa in È vostra la vita che ho perso. Conversazione e interviste 1964-1995, a cura di Monica Venturini e Silvia De March, Le Lettere 2010), diceva dunque Rosselli che «la donna con la sua fisiologicità corporale (…) ha qualcosa non di diverso da scrivere, ma di più fisiologico da distinguere anche sul piano contenutistico».
La fisiologia, già. Se c’è in Contini un caso di sordità altrettanto dannoso è il saggio su, o meglio contro, Dino Campana (1937, negli Esercizî di lettura): avversato proprio per un «mito», il suo, che si «colora un poco di fisiologia». Ma è proprio questo (duole per Marchesini, a sentire il quale oggi si userebbe «la parola “corpo” con la fascinazione ipnotica con cui negli anni Cinquanta si usava la parola “popolo”») il punto nevralgico su cui ragiona la migliore poesia ultima. È vero quanto sostiene Galaverni, che negli ultimi anni si è assistito a una «retorica del corpo e del dolore»; ma solo perché questa piega, che attraversa la poesia moderna e post-, in tanti epigoni (ed epigone) è stata esposta in quanto tale, in modo persino ricattatorio, senza che essa attraversi davvero la pelle della lingua: così mutandola in modo irreversibile.
A partire almeno da Rimbaud (e Campana), e in modo sempre più evidente con Artaud (il «polo Artaud» che l’altro grande maestro delle ultime generazioni, Andrea Zanzotto, non a caso affiancava a quello «Mallarmé»), la poesia ha tentato in ogni modo, al contrario, di superare la scissione «cartesiana» tra lògos e appunto fisiologia. Dice ad Ambra Zorat Laura Pugno, autrice «metamorfica» se ce n’è una: «il corpo, nella mia produzione poetica, è centrale e soprattutto è legato alla mente. Cerco di ricucire la frattura, come del resto cerco di fare anche nella mia vita».
Ha senso eccome, allora, e addirittura un senso rivoluzionario, tentare di ricomporre tale frattura: ove la si riconosca persino costitutiva della poesia occidentale, da Petrarca in poi. Dove infatti il corpo che magnetizza la lingua e mobilizza la retorica di chi inconcusso si dice «io» è sempre quello di un altro (il «tu» amoroso). È stato il pensiero fenomenologico novecentesco – ragionando proprio su Cartesio – a capire, con svolta non meno che copernicana, come invece il corpo di chi dice «io» non possa essere in alcun modo messo fra parentesi: in quanto «punto zero» (Husserl) che condiziona ogni atto di percezione. Il corpo e anzi la carne (Merleau-Ponty): se è vero che il primo pregiudizio da mettere in discussione è proprio l’unità e l’organicità di quanto definiamo «corpo» (o appunto corpus: Nancy).
La poesia del corpo (o, diciamo meglio, di una lingua corporale) non appartiene naturalmente solo alle donne; senza dover risalire a Campana, lo dimostra la parabola di un «cartesiano» altrettanto esemplare come Valerio Magrelli. Eppure non si può negare, anche solo per via statistica, che nell’ultima generazione soprattutto loro, le donne appunto, abbiano interpretato una simile fisica del senso. Lo mostrano esemplarmente, all’interno dell’antologia einaudiana, i versi di Antonella Bukovaz, Maria Grazia Calandrone, Giovanna Frene, Franca Mancinelli e Laura Pugno. Ma lo mostrano altrettanto ulteriori interpreti più o meno coetanee, o più giovani ancora. A parte Elisa Biagini e Mariangela Gualtieri (ancorché già pubblicate dalla medesima collana, la loro presenza nell’antologia meglio avrebbe fatto capire di cosa si sta parlando), penso alle uscite recenti e più o meno «organiche» di autrici come l’Alessandra Carnaroli di Femminimondo (Polimata), l’Alessandra Cava di rsvp (Polimata), l’Elisa Davoglio di Detour (La camera verde), la Rosaria Lo Russo di Nel nosocomio (Transeuropa), la Giovanna Marmo della Testa capovolta (Edizioni d’If), la Renata Morresi di Cuore comune (PeQuod), la Gilda Policastro di Antiprodigi e passi falsi (Transeuropa), la Marilena Renda di Ruggine (Le voci della luna: libro che sebbene mi sia dedicato, il che mi pone in evidente conflitto d’interessi, non mi pare giusto sottacere); nonché a Sara Ventroni, dalla quale si attendono notizie dai tempi di Nel Gasometro (Le Lettere).
Magari, giusto di passaggio, qualcuno avrà notato che non uno di questi libri è uscito presso un «grande» editore. Ma certo, si sa, la poesia delle donne non è più un problema.
Grazia Calanna, “La Sicilia”, 13.8.12
Filippo La Porta, Poesia. L’arte antica felice di stare nella rete, “il Messaggero”, 13.8.12 – Singolare destino quello della poesia: rivolta malinconicamente al passato e proiettata verso un futuro ipertecnologico.Da una parte infatti ci appare come un linguaggio sempre più obsoleto (la stranezza dell’andare ogni tanto a capo), dall’altra assomiglia alla modalità non lineare, ipertestuale della stessa Rete (in un componimento lirico puoi entrare e uscire dove ti pare) e corrisponde alla modalità analogica del pensiero emotivo (vedi neuroscienze). E anzi è un linguaggio maneggevole, conforme a un’epoca basata su velocità e simultaneità. Ma chiediamoci: la produzione in versi nel nostro paese è all’altezza della scommessa che oggi la poesia, sempre più insidiata dalla canzone pop (quasi una poesia di massa), si prepara ad affrontare? Da innumerevoli segnali sembrerebbe di sì.
I poeti italiani attuali, finalmente liberati dalle ultime scorie afasiche dell’ermetismo, sottratti alla suggestione neo-orfica (l’oscurità programmatica) e all’epigonismo manieristico del postmoderno, estranei pure alla tentazione della prosa (vedi Pasolini e l’ultimo Montale autosemplificatosi negli anni ’70 con Satura), non si vergognano più di dire qualcosa, e dunque si impegnano a pensare, a raccontare, a conversare, ad argomentare in versi (all’origine c’è il grande modello italiano della poesia di Dante, insieme morale e di straordinaria cantabilità, ragionante ed espressivamente audace). Almeno queste sono le conclusioni del lungo editoriale che Paolo Febbraro ha scritto per l’ultimo numero del glorioso Annuario di poesia, pubblicato da Perrone (diretto da lui e da Giorgio Manacorda, che lo fondò nel 1995). In quasi vent’anni l’Annuario si è prodigato nel censire, sistemare, valutare la copiosa galassia della poesia nel nostro paese (secondo un recente censimento l’Italia può vantare due milioni di poeti, se contiamo anche quelli online). Facendo bilanci, stilando graduatorie, ipotizzando canoni, emettendo giudizi di valore non conformisti. Ora Febbraro dichiara una certa stanchezza anche perché, aggiunge, l’Annuario ha vinto, esaurendo il proprio compito militante.
Ha vinto per le ragioni che dicevamo prima, perché la poesia ha smesso di essere autoreferenziale e chiusa nel proprio gergo esoterico (significativamente si intitola Poesia senza gergo un bel saggio per Gaffi di Matteo Marchesini, il quale predilige i poeti-critici, saggisti in nuce…). E perché sulla scena restano almeno una dozzina di poeti di sicuro valore, che reagiscono all’arbitrio dell’informe e tentano di dire il mondo attraverso una lingua che è del nostro tempo, mentre l’esorbitante popolo dei poeti tende a usare una lingua poetica arcaica volgarizzata e a ignorare «un lessico e un artigianato poetico contemporaneo» (Alberto Bertoni in La poesia contemporanea, Il Mulino).
Ma vediamo da vicino alcuni di questi poeti, raccolti nel recente Nuovi poeti italiani 6 Einaudi) a cura di Giovanna Rosadini, che ha scelto 12 voci femminili, anche per compensare un po’ l’ingiustizia di troppe antologie poetiche che quasi escludono le donne, da Mengaldo a Sanguineti (non sono certo che esista una scrittura femminile, specie in un mondo dove si sceglie tutto, perfino il sesso, però credo nel femminile come modalità conoscitiva fondata su una passività ricettiva estranea alla volontà di dominio). Tra quelle presenti nell’antologia ottimamente curata dalla Rosadini (che è anche poetessa) vorrei citare le mie preferite.
Il ritratto di Napoli nei versi di Rossella Tempesta è visionario e di minuziosa precisione: «stasera città presepiale,/deserta di pastori e affollata/ di case e lucine/ – accesi i salotti, le cucine…». Laura Liberale quasi suggerisce, con filosofica levità, una definizione della poesia: «Ci giocherai, vedrai, con le parole./Potrai fondare analogie/creare insospettate connessioni/un tuo esoterico vocabolario». Isabella Leardini fissa la tremante, effimera felicità dell’esistenza: «Chi perde il tempo di essere felice/ per prima cosa perde le risate/che tolgono il respiro, poi qualcuno/scende dentro lo sguardo lo fa nero/ come l’argento chiuso nei cassetti». Maria Grazia Calandrone riannoda le umana quotidianità una percezione cosmica: «Il sole è un animale generoso e lento/sosta/nella buca oceanica del giorno con il suo occhio, con il/suo circolare/occhio». Laura Pugno ritrae la fluidità (pur inquietante) della sua creatura in kayak: «è una ragazza con la schiena dritta/orecchie piccole e bianche con orecchini di perle/non vedi le gambe – /(…) – / non vedi la sua forma di sirena,/l’acqua è immobile sotto». Ma la più autentica voce poetica di questa antologia – e una delle maggiori nel panorama attuale – è quella di Alida Airaghi: «Non sono onde. Ne avrebbero forse/l’intenzione, increspature leggere,/rughe dell’acqua, e basta./Non sarà mai tempesta/questo lago, scarso coraggio/di farsi mare, se accoglie un fiume/lo placa, lo annulla in una quiete/casta». Con lei scopriamo la necessità della poesia anche nel terzo millennio: singolare scienza delle relazioni invisibili tra le cose, stravolgimento (o intensificazione) del discorso ordinario per rivelare qualcosa di non ovvio, autobiografia interiore, sapere per nulla esoterico ma capace di aderire al ritmo stesso della realtà.
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