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Ballerini Luigi (Perolino U., RCL 9.21)

In ROSSOCORPOLINGUA Anno IV Numero 3 – Settembre 2021

Possiamo definire onnivora la poesia di Luigi Ballerini. Onnivora per fame di vita e realtà e per eccezionalità del linguaggio, che tiene insieme ogni diramazione del reale. E il bel libro di Ugo Perolino rende conto proprio di questa eccentrica disposizione a cogliere ogni frutto del reale, perché, come ho scritto nella quarta di copertina a Divieto di sosta, in certi fortunati casi il mondo è linguaggio, spontaneamente si trasforma in linguaggio, sotto la vigilanza di una sola legge, che è quella della musica.

Ballerini tende l’orecchio alla musica del mondo e la sua scrittura è mutevole, armoniosa e dissonante insieme, come è appunto il suono delle cose vissute. Dunque, come scrive lo stesso Perolino, la classificazione dell’opera balleriniana è complessa: se da un lato assorbe l’umore delle avanguardie novecentesche, dal lato opposto tiene conto delle istanze pasoliniane del realismo anche politico, di una politica fondata e costruita su una mitologia personale e rinnovata. Questo perché la cifra ultima della poesia balleriniana è appunto il mutamento, la fluidità, che riproduce l’inafferrabilità stessa del reale, la compartecipazione a ogni dipartimento del possibile, tanto che – come sottolinea ancora Perolino – gli oggetti sono spesso incongrui, fuori contesto, ci diventano alieni. Poesia dunque che non si affanna alle soglie dell’impossibile restituzione della cosa in sé, ma che sfiora la cosa sottoposta alla musica umana e anche alla facoltà che solo gli umani possiedono, l’ironia, e addirittura il riso, del quale si occupa in particolare il bel saggio di Beppe Cavatorta.

Ma sentite cosa scrive Perolino: «Le linee discorsive del mito risultano compattate, come gli strati lamellari di una marna, con spesse agglutinazioni di materiali provenienti dai lessici scientifici, che attivano paradigmi analogici, assecondano vertiginose fughe di senso, straniate prossimità, umoristici contrappunti»

Dopo quanto detto, non stupisce che l’umorismo di Ballerini possa rovesciarsi in ciò che solitamente immaginiamo come suo contrario, cioè poesia che s’impenna in frecciate liriche, o nella serietà improvvisa che si deve al racconto della storia (pensiamo a Cefalonia, che però non è solo poema epico, coerentemente al corpo di una poesia che non ha mai una voce e basta). Probabile che la nascita di questo sistema sia dovuta al dispositivo associativo che opera nella mente del poeta, spesso suo malgrado, quando il poeta segue la scia delle parole e, come un bambino adulto, sta tutto teso a trascrivere ogni scossa, adoperando sé come un sismografo.

Dallo Stil Novo ai Novissimi, dunque, la poesia di Ballerini abbraccia tutto, in una irresistibile attrazione verso un esperimento linguistico permanente, mai stanco, mai fermo, senza – appunto – mai sosta. Remo Bodei, più volte citato nei saggi raccolti nel volume, parla di opera di traduzione continua, quasi di un trasloco di uno stesso verbo tra campi semantici.

La domanda che mi sono sempre fatta è: perché?

Ballerini è troppo intelligente per avere la pretesa di restituire la realtà polimorfa simulandola in una poesia proteiforme e cangiante, che impasta citazioni altissime a eccidi della Storia maggiore a claim televisivi.

E allora, cosa vuole fare?

Credo che Ballerini edifichi con infinita pazienza (e anche con moltissima gioia, perché la sua poesia, la sua continua invenzione, traboccano della pura gioia della parola) un mondo simile al mondo, ma del quale meglio si legga l’inquietudine, grazie al contrasto col suo essere disposto in file più o meno ordinate di parole, che qui e là esplodono come mine o fuochi artificiali o anche un improvviso germogliare di natura.

Lo scopo credo sia farci riconoscere lo stridore del primo mondo, quello tridimensionale che abitiamo.

Federica Santini, scrivendo di «una tensione semantica fortissima e pervasiva, quella etica verso il rifiuto del mercato e della logica del profitto» sembra confermare questa ipotesi anche politica.

Infine, adoperare la spazzatura, i resti, i tralci, la segatura della poesia e della storia (c’è differenza?) venute prima di noi mi pare sia un gesto di ricostruzione di bellezza dalle macerie delle quali abbiamo riempito il Novecento – e non solo.

Ma di una bellezza diversa, contemporanea – o meglio, sempre a se stessa contemporanea, dunque che cambia rapidamente come rapidamente cambiano i tempi, di certo più rapidamente dei tempi di adattamento biologico – questa bellezza nostra a volte crudele, spesso ironica, ma senza disincanto, perché la poesia di Ballerini, per quanto consapevole e a volte sarcastica, non è mai cinica, mai disillusa, è sempre e ancora vestita di scandalo.

Quale scintilla ancora d’incantesimo possiamo strappare alla realtà, infatti, se non la poesia, se non l’arte, se non questo continuo tentativo di riordinare il mondo assumendo il suo disordine come un destino, riordinandolo – sempre provvisoriamente – col gesto di trascriverlo?

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