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Amanda Gorman (“F” 4.1.22)

Amanda Gorman

Se saremo all’altezza del nostro tempo,

la vittoria

non verrà dal pugnale, ma dai ponti

che avremo gettato.

Non c’è confine tra poesia e politica: se la poesia viene scritta in paesi come l’Italia, nei quali si vocifera abbia perso il proprio antico «mandato sociale», ma rimane ben viva nella sua bolla fuori dal mercato, il semplice gesto di scriverla contesta l’andamento planetario, che vorrebbe ogni scelta basata su ritorni economici o, perlomeno, di gloria. La gratuità dello scrivere versi è, qui, un gesto politico.

Nei paesi dove i poeti vengono ascoltati dal potere, le loro parole sono invece apertamente e non solo indirettamente politiche, perché emancipano, infiammano, fanno riflettere e commuovono un popolo più vasto di quello dei poeti. Per rimanere nell’attualità, è il caso delle poetesse arabe, particolarmente delle afghane. In quei luoghi la poesia serve a qualcosa, perché è memorabile più della prosa, anche quando non rima. Questo sembrano credere anche i presidenti statunitensi che invitano i poeti alla festa del proprio insediamento.

Ma in quei casi la poesia perde il proprio fondamento di libertà e diventa serva dell’ideologia o, peggio, del potere? Stalin chiedeva omaggi ai suoi poeti e, se i poeti osavano metterlo in ridicolo coi loro versi, li mandava in esilio, non li uccideva perché li temeva. Succede ancora che la poesia, questa materia inafferrabile che vuole essere collettiva come l’umanità tutta, quando è messa a contatto col potere si snaturi e diventi goffa come l’albatro baudelairiano, il maestoso volatile che, camminando in terra, striscia le ali nel fango e viene deriso? Non è il caso di Amanda Gorman, perché la composizione che questa elegantissima, sottile ventitreenne afroamericana ha presentato all’insediamento di Joe Biden è perfettamente coerente con tutto il suo lavoro precedente: Gorman è un’attivista, ha fondato l’organizzazione One Pen One Page per dare ai giovani la possibilità di scrivere e pubblicare e lei stessa, già poetessa laureata statunitense e addottorata in sociologia ad Harvard, ha sempre adoperato la poesia per dire cose, in linea con la tradizione politica, colloquiale o confessionale, di molta poesia americana. Ma lo fa con grazia, aspettando il momento in cui le cose sentono il bisogno di essere dette, perché in Gorman confluiscono spontaneamente amore per la parola, ribellione e interesse per il mondo.

Nel testo letto lo scorso gennaio, Amanda adopera se stessa come emblema di un cambiamento già avvenuto, scrive di sé caduta in un tempo dove una ragazzina con la sua ascendenza di schiavi e la sua biografia di ragazza «cresciuta da una madre sola» può permettersi di immaginarsi presidente.

Ovviamente il poemetto dell’insediamento è un testo d’occasione, scritto a scopo universalmente comunicativo, ma Gorman riesce a stillare metafore nuove dal già detto, cercando di illuminare «la via con le parole», per usare la bella espressione della prefatrice all’edizione italiana del poemetto di Amanda, l’altra grande autrice, imprenditrice e attivista afroamericana Oprah Winfrey. Amanda non vuole certo illuminare perché crede di sapere più di chi legge, insiste anzi nel dichiarare di sentirsi parte di un collettivo che procede insieme sulla via del futuro. Accade poi che il tempo contemporaneo nel quale Amanda è inclusa e che è stata chiamata a testimoniare, l’aiuti a indignarsi, dati gli attacchi inconsulti dei trumpisti al Campidoglio, pochi giorni prima del suo intervento. Infine, il testo di Gorman, oltre a incoraggiare alla speranza, si spinge ad affermare che la legge non sempre coincide con la giustizia: «E che le regole e opinioni del «così è» / Non sempre sono giustizia» sono due versi dal contenuto eversivo e potente.

Amanda Gorman sente la responsabilità della storia che, dal passato e dal futuro, osserva le sue e nostre azioni e chissà se la metafora della collina, oltre a significare l’esplicito dislivello da scalare, richiama la collina poetica del piccolo paese di Spoon River, che Edgar Lee Masters ha elevato a emblema dell’ironia e miseria dell’intero mondo. Ognuno racconta i dettagli del proprio villaggio per raccontare l’umanità, secondo la lezione di Lev Tolstoj. Nel villaggio globale che abitiamo, il nostro paese non è rotto, non è piegato, dice Gorman ai concittadini, ma non abbiamo finito di costruirlo e questa immagine è un condensato di tenerezza parentale, perché possiamo rintracciare in essa le mani «non finite» dei bambini messe in versi da Rainer Maria Rilke.

La forza di Gorman è nello sguardo lucido e realista, che la include in una continuità pensante, la comunità dei poeti che non puntano il dito sulla sofferenza, propria e altrui, ma, nonostante vedano la sofferenza di ciascuna e di tutte le vite, lanciano la propria immaginazione oltre la collina del dolore, adoperano la postura che Antonio Gramsci definisce «ottimismo della volontà», opponendolo al più ovvio «pessimismo della ragione». Ci vuole molto coraggio, per non farsi schiacciare dalla storia. Bisogna avere coraggio, per vedere la luce nonostante tutto. Lo sanno poeti come Wislawa Szymborska, Alda Merini, Nazim Hikmet, la sa soprattutto Paul Celan. L’elenco dei poeti che si schierano col motto gramsciano ha infatti il suo maestro in Celan che, nonostante il desolante spettacolo dei cieli vuoti e della terra devastata da sangue e ceneri umane della Shoah, fonda una nuova fede nella parola, che può essere scritta – anzi, cantata «ben al di sopra della spina», come Celan dichiara nella decisiva poesia intitolata Salmo.

La parola d’ordine di questa corona di canto che il genere umano indossa e chiama poesia è, dunque, nonostante. Nonostante il dolore, nonostante il teatro della crudeltà. Insomma, nonostante quella che usiamo definire realtà e nonostante noi.

La giovanissima Gorman suggerisce che il coraggio non è appiattire il proprio sguardo su quanto osiamo vedere, ma, anche dopo aver osservato il desolante spettacolo novecentesco descritto dal poeta T.S. Eliot nella sua Waste Land, coraggio è immaginare e lavorare, per trasformare quello che vediamo. Amanda Gorman, insieme a molti altri come lei, ci autorizza a sperare che i ragazzi stiano prendendo una posizione nitida verso il futuro di tutti, perché scrive un inno al lavoro e alla responsabilità, individuale e collettiva, di non lasciare il mondo più distrutto di come ciascuno lo ha trovato nascendo. Nostro compito è dunque aprire le finestre e tentare di aggiungere ciascuno la propria scaglia di bellezza, cioè di giustizia, allo spettacolo della realtà.

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