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Dizionario della moda: la gonna (la Repubblica, 7.4.22)

DOVE VANNO LE COSE (la Repubblica, 7 aprile 2022)

Negli anni Settanta ci affezionavamo alle cose.

C’era l’austerity, i padri andavano al lavoro in bici (le madri meno, sopravviveva qualche pregiudizio sulla donna a cavallo del sellino), Adriano Celentano batteva il ritmo con la punta dello stivaletto mentre cantava «Svalutation» e le cose dovevano durare, quindi noi ragazzine avevamo sviluppato una grande solerzia manuale.

Rammendavamo, incollavamo, rattoppavamo, sceglievamo patch rock per gli strappi alla maniche, cucivamo toppe blu per rinforzare le ginocchia dei pantaloni di fustagno marrone, toppe rosse come bandiere venivano schiaffate sulle terga delle gonne in jeans, e così giravamo orgogliose come piccole scimmie dal culo rosso (eppure, nelle foto con la gonna corta: la mano sul ginocchio, a coprire).

Come nel kintsugi giapponese (l’arte di incollare con oro fuso i cocci dei vasi rotti), rendevamo arte le ferite dei nostri indumenti preferiti, mostravamo il tempo passato insieme alle cose, applicando sui giubbotti le sagome adesive della famosa traversata dei Beatles in Abbey Road. E con che amore scioglievamo il collante, passando il ferro caldo sui bei corpi di John, Ringo, Paul e George.

La vita quotidiana era piena di una ragionevolezza pratica, spesso felice. Esisteva l’unità di misura della felicità domenicale, un sistema «base per altezza», che ne esprimeva ampiezza e durata.

Poniamo il ritmo cardiaco del pedale della macchina da cucire Singer alla base del pomeriggio domenicale (e della scrittura, che in esso si compiva, per esempio il netto arzigogolo dei compiti di matematica, di regola rimandati al limite estremo del giorno).

L’altezza era composta di vapore, l’altezza era dovuta all’evaporazione dell’acqua, nella quale bolliva la cena (molte verdure profumate, tagliate in pezzi irregolari, e un piccolo trancio di lesso diviso in quattro) nella pentola grande.

Nell’asse cartesiano formato dal rumore ritmico, di mare e respiro, e dall’odore buono che riempiva le case, i nostri corpi tutti rattoppati erano beati.

Ma i vestiti non crescono insieme ai corpi che li indossano, non partecipano della materia viva e organica che noi ragazze attribuiamo loro, dunque arrivava il momento dello strappo terminale, o dell’abbandono, dovuto alla crescita di una spalla, di un fianco, di un seno.

Inutile saltellare in apnea per tutta la stanza, con le costole esposte al pubblico ludibrio, per far salire la cerniera lampo di un pantalone ormai esiguo, o agganciarne un bottone che ormai mancava l’asola di parecchi centimetri, inutile appiattirsi come sogliole nella camicetta, o ingobbire le spalle come Quasimodo di Notre-Dame dentro il cappottino rosso.

Il corpo esubera, il corpo non ci sta più. Il corpo vuole dire addio alle cose, cambia opinione.

Le più fortunate assistevano allora al rito del riciclaggio alla sorella minore (la vita della quale nasceva funestata dal destino di essere un’indossatrice di seconda mano, e l’espressione della quale era infatti, di solito, stabilmente contraria).

Le figlie uniche dovevano sopportare invece una separazione decisiva, vedevano sparire l’indumento rattoppato e consunto (proprio quello col quale erano andate alla prima festicciola o erano cadute dalla prima volata sulla bicicletta azzurra) nella misteriosa voragine che si apriva al di là della porta di casa.

L’abitino veniva ingoiato dalla camera da letto dei genitori e non ne fuorisciva mai più, né veniva fornita notizia della sua permanenza in questo mondo. Nessuna risposta ai più drammatici interrogativi del lutto, quali: Che fine fanno le mie cose senza di me? I miei pantaloncini continuano a esistere, lontani dal mio corpo?

Il primo approccio all’arte della persuasione diplomatica avviene saltellando per la stanza dopo che i calzoncini preferiti, quelli pieni di tasche con l’impuntura in evidenza, hanno litigato col tuo corpo. Li si blandisce, si cerca di convincerli a mutare forma. Invano. La materia è tenace. La materia non molla la presa.

Il primo approccio alla filosofia, è quell’arrendersi infantile all’evidenza della realtà, quel rassegnarsi alla caparbietà della materia e, successivamente, allo scorrere del tempo. Il tempo è testardo. Il tempo non molla la presa.

L’ingresso definitivo nella saggezza, è accettare la nostra impotenza a indossare mai più quella splendida, morbida, perfetta gonnellina a scacchi, trovata sotto l’albero quando eravamo tutti.

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