Come si cercano le parole migliori per costruire mondi (Domani, 30.10.24)
LECTIO PER LA SCUOLA HOLDEN
Scrivere significa attraversare terre sconosciute tenendo in tasca poco, due o tre monete, senza sapere se in quelle regioni saranno spendibili. Le abbiamo portate da casa. Sono la nostra storia, i nostri sogni (intendo veri e propri sogni notturni, non fantasticherie) e sono, soprattutto, la storia del mondo che abitiamo. Cosa c’è intorno a noi, che epoca sia, che lingua parlano i nostri contemporanei, quale sia l’inflessione, l’abitudine, il vezzo comunicativo. Il nostro compito è non solo rendere testimonianza, ma portare il corpo di quella lingua parlata nella stanza della scrittura e così illuminarlo, rielaborare il carico del presente e spostarlo su un piano narrativo fatto di conseguenze, non più frammentato come la vita usa inevitabilmente essere. Ma che la stanza della scrittura non sia la teca di un museo! La vita, sulla pagina, deve restare viva.
Compito della letteratura, se ne ha uno, è cercare coerenza nel magma della vita, uno o più fili rossi di cause-effetti, così da provare a dire il nostro tempo dentro il più ampio tempo umano. Una scrittura efficace rintraccia le ripetizioni nel tempo dell’umanità, la sua conformazione elementare di amore e morte, invidia, tenerezza. In tutto quello, insomma, che caratterizza i viventi e, a un più stretto livello molecolare, è resoconto anche della materia inerte.
Abbiamo infatti bisogno di terra, terra osservata da impastare. E di strumenti: aggettivi, trame e parole nuove, o accostamenti nuovi di parole consumate dai secoli: amore, morte… Insomma, un certo numero di attrezzi che il più delle volte costruiamo con quello che troviamo lungo la strada. Un legnetto, il flash di una scena vista dall’autobus, un brandello di conversazione orecchiata al supermercato e che, per caso, si mescola col sentimento che proprio in quel momento vi sta evocando la canzone trasmessa dagli altoparlanti. Vi è appena venuta in mente una poltrona, e lo sguardo di lei. E quel ragazzo bruno ha appena detto al telefono Non ti preoccupare, sto arrivando. A chi l’ha detto? Per voi l’ha detto alla persona che avevate in mente. Perché uno dei più insospettabili segreti della scrittura è arrangiarsi coi materiali offerti dal caso e avere fiducia. Una grande, incosciente, infantile, profondissima fiducia che, camminando, troveremo qualcosa di utile al nostro lavoro.
Ma dobbiamo osservare tutto, ascoltare tutto, essere disponibili a tutto. Per questo, per favore, se volete scrivere, state dentro la vita, state dentro la vita coi sensi aperti. Non vi distraete mai dalla vita. Soprattutto, ascoltate la musica che fa la vita. La frequenza di fondo della vita, quella molecolare della materia, così simile al rombo delle stelle e all’acuto del canto delle megattere. Sentirete che tutto è collegato e che cosa risponde a cosa e non importa quanto siano lontane. Lo spiega anche la fisica, attraverso il misterioso fenomeno dell’entanglement, che rivela l’amore della materia per la materia un tempo conosciuta. Alleniamo l’orecchio ad ascoltare questa musica di fondo e impastiamola coi rumori esterni, presenti, che sono la lingua della nostra personale (e casuale) contemporaneità.
Infine, per cominciare a scrivere, a immaginare, dobbiamo avere la mente satura di informazioni. Come l’amore, le informazioni raccolte per scrivere devono esorbitare dalla nostra misura, eccedere il limite del nostro spazio di contenimento. Ne dobbiamo sapere talmente tanto che quello che sappiamo è incontenibile. Allora le parole costruiscono mondi.
Prendiamo l’esempio concreto e presente. Sono appena atterrata ad Abu Dhabi, ospite dell’Istituto Italiano di Cultura, e non capisco bene la situazione. Alloggio al ventiseiesimo piano di un hotel grande come un aeroporto, sfarzoso nel modo dorato e fuori misura che gli occidentali faticano a comprendere, fissati come sono con l’equivalenza fra sobrietà ed eleganza. La sera, ai tavolini del ristorante, accanto a bellissime ragazze in lungo, che godono la propria giovinezza raggiante, siedono donne che sembrano essersi appena sciolte dai fianchi la grembiulata di mais per le galline e uomini tozzi e compatti come blocchi di granito, che pare abbiano deposto nel guardaroba l’arma bianca degli yakuza, semisommersa dentro la tasca interna della giacca. A prima vista, sto cenando fra un gruppo di contadine uzbeke e un altro di gangster coreani. In silenzio, infiliamo in bocca creme, dolci e pezzi di misteriose verdure al miele su un lungomare fantascientifico, coi grattacieli in vetro color bronzo a picco sul Golfo Arabico, mentre il servizio alle macchine, ai tavoli e alla reception è affidato esclusivamente a indiani o pakistani.
Se volessimo scrivere di questo, non basterebbero però queste prime superficialissime, estemporanee impressioni, decisamente stupide e traboccanti pregiudizio. Dovremmo piuttosto sapere tutto di questo luogo, dovremmo sapere tutto di questi uomini e di queste donne e del perché siano qui, perché formino questi serissimi gruppi fotografici sotto le enormi palme della hall.
Dopo, potremmo inventare le loro vite. E la nostra invenzione sarebbe vera, più del vero.
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