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Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier, 2005)

Editore: Edizioni Atelier
Collana: Parsifal
Data uscita: 2005
Pagine: 80
Lingua: Italiano
EAN: 9788889520031
Listino: € 7,50
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La materia ha il peso e l’esattezza che ci serve
a dividerci come nuotando, come arcieri che scoccano. Abbiamo
convincimenti da laboratorio angelico: nell’acuto, nel perno
del cronografo, nel
fulgido. La sfoglia calda della superficie sostiene
una comune interezza, l’incedere
lauto e canoro delle pallonate – spezzoni: curve, torsioni della vela
dell’esistenza tutta che non si vorrebbe
pronta. O sangue malinconico o vascello legato
a cose come – la schiuma
–  l’ombra – la consistenza agrosalina del sangue, la miseria climatica
dell’unghia, la midolla
radiografica dell’osso
quasi scoperto – o
l’argilla che rode
il tubo
gommato – il vulnere
ingoiato
nella ferma
poderosa. Questo volto rifatto sconosciuto è una cosa
che rimbomba e approssima a niente
l’automatismo del respiro. Entra
nella memoria
nella fermezza della caccia
e nella discriminazione senza profitto
dell’amore. Datele
coscienza:
la pietà che apre gli occhi. Sempre, sopra
ogni fortuna, avrei chiesto che tu non fossi morta.

Conta di caldo e freddo dalla città
 
Essere terra è il nostro risultato
lo scorrere zigzagante e tardivo
di un’idea perpendicolare del corpo. La terra è frutto di una decisione
collettiva – è
autentica fondazione – zappatura.
La piegatura delle sue specie folgora e monda: fonda
uno sguardo orizzontale e chiaro: uno specchio (quasi
di acqua) dal quale sgorgare come flauti – energia verticale
con le vanghe
nella terra inzuppata e cariata dal temporale. Dove termina
il pensiero non resta che constatare
l’esistenza
la soavità della mandria
l’orma
del pitecantropo. Selce
della famiglia eretta
(a sacramento). 
 
***
 
Lo scoppio nelle camere
di combustione (la combustione
della grafia legata all’emisfera nella quale il corpo fu incominciato
– incomincia ogni giorno –
ad esistere prima per iscritto e dolcemente poi
a desistere
a cedere un calore di sottana alle sponde
di acciaio cromato) con l’elevato grado di fermezza prodotta
dal cobalto
della schiuma marina. Nel letto
vinilico i residui del nòcciolo
radioattivo: cuore vicino al flusso della lava, vene senza esercizio – un fulmine
globulare – le feritoie di olio e di bitume – perché il letto ha grandezza e superfici
– navate – o è un Reno gelato
e plebeo – piccole fruste che sbandano le truppe (e nei reparti
vige una generale ritirata
verso il santuario, la porta occidentale). Siete navi
condotte dal vento come per mezzo di una lunga briglia
a figure interne che tendono alla sequenza e alla stasi.
Siete corpi iniziati dal nome e da quel nome
– mamma – evaporate
con quegli occhi iniziali
scacciati
dal dolore e dal freddo come bestie.
 
***
 
E tu violenta e rassegnata nella vestìna smalvita: una reliquia
nel suo fiammeggiare
preparata a una muta capienza. Ti poso sulla seggiola
come un vestito vuoto
e bianco. Mio piccolo legno di tabernacolo. 
 
***
 
Io sono nella mia morte – sono dove nessuno più mi cerca:
infelice come una bambina – felice come una bambina.

 
Estratti critici

Andrea Cortellessa, motivazione Premio “Diego Valeri” 2005 – L’epifania di Maria Grazia Calandrone, negli ultimi tre anni, è stata folgorante. Di quelle apparizioni che stupiscono ma che, ciò malgrado, una volta manifeste appaiono necessarie da sempre. La sua lingua poetica è quella della grande analogia, degli accostamenti lessicali e visivi (visionari, cioè) stupefacenti, eppure appunto mai gratuiti. Ma c’è in lei – rispetto a questa nobile tradizione – una ruvida concretezza tutta contemporanea, un aggancio a terra tattile e materico che si esprime soprattutto nell’espansione infrenabile di un verso lungo o lunghissimo, dunque massimamente inclusivo, in certe spavalde impuntature lessicali e, più in generale, con un’espressione della sofferenza assai tangibile ed evidente. Questo lamento non è però mai chiuso nel guscio umidiccio dell’io lirico tradizionale ma, proprio grazie allo strumento analogico e visionario, si estende a ondate progressive sino a chiamare in causa una condizione universale: una tramatura profonda dell’umano.

 

Massimo Sannelli, “Microcritica”, 28.3.05 – È come se Calandrone mescolasse poesia e non-poesia, lirica e struttura, nella speranza di uscire da una condizione esclusivamente lirica o esclusivamente analitica. È inspiegabile, forse, in termini esattamente critici, ma non secondaria, in me lettore, la percezione di una feconda non italianità di questa poesia. […] 

Prima sintesi, da verificare: Maria Grazia Calandrone testimonia qualcosa che non è né oltre né prima, né chiaro né oscuro. Si vorrebbe dire: né Paradiso né Inferno. La stessa morte è una sorta di fissità mobile, giustamente ossimorica. […] 
Ne deriva anche l’impressione, da percepire meglio, che i morti non sono solo i trapassati. Tutto questo è in rapporto con la particolarissima metrica di Calandrone, in cui alcuni versi diventano lunghissimi e si ripiegano due o tre volte? E l’evocazione formale della forma-prosa nel corpo della poesia si lega all’interpretazione poetica della morte? Queste domande sono anche ipotesi di lavoro per il futuro. […] 
Seconda sintesi: le cose e i concetti ci sono, e devono essere qualificati il più possibile, a costo di creare sintagmi aristocratici, in cui si ascolta qualche eco di scritture storiche (p. 12: “trebbiatura qualitativa”; p. 13: “l’orda / mondana”; p. 25: “briglia argentina”; p. 29: “sopravvivenza idroelettrica”; p. 55: “corpi sulfurei”). 
Solo chi sa (dire) che cosa si perde muore convinto, anche se disperato. E solo chi sa che cosa circonda il passaggio dal rumore al silenzio può concepire un’idea della morte come movimento. Tutto questo non può lasciare intatte la lingua dell’uso e la metrica ‘tipica’. 
“Non finiamo mai di morire” perché la fine della morte comporterebbe la seconda, e definitiva, morte. Siamo quasi nel Medioevo, dove il nuovo è una religione stilistica ed etica: ciò che non si rinnova – all’interno di un omaggio devoto alla Tradizione, implicita ma superabile – è veramente morto. 
[…] quella di Moravia sui “due o tre poeti” che nascono in un secolo. Leggo libri quasi solo per trovare questa purezza, che ha i suoi effetti sulla vita e non è narcisistica: non si tratta, come Derrida chiarisce infra, di un purismo ‘grammaticale’, ma del “mormorio imperioso di un ordine” che tende alla lingua. Ben altro che trovare conferme ad un egocentrismo che sarebbe frivolo o risibile, o schierarsi per santificare una posizione opposta a un’altra. Il nemico è nella mente, ma la mente non è nemica. La mente interpreta ciò che dovrà essere vissuto in un altro modo. La poesia è un bene rarissimo: scoprirla, ardente, è la felicità. 

Giovanni Salviati, “Il Giornale di Vicenza”, 2.4.05 – […] in Maria Grazia Calandrone c’è un gusto analitico, indagatore e al tempo stesso fluviale di occupare lo spazio metrico con la propria espressione, con la piacevolezza del dirsi e del comunicare, di risentire l’articolata pienezza del suono delle parole di tutti i giorni, con il loro referente linguistico portatore di vita […] e verrebbe voglia di lasciar proseguire il fluire di questi versi, che ricordano un po’ l’irruenza di un Whitman passato attarverso il ‘900. 

Alberto Toni, “Avanti!”, 26.5.05 – […] Tutto viaggia verso un assoluto da ricomporre, un fronte comune da ritrovare, da ricucire dopo le distruzioni La poesia si salva così, nel tentativo di rompere l’assedio […]. Ogni volta sembra la prima volta “in un essenziale grumo”. 

Maurizio Cucchi“Specchio della Stampa”, 10.9.05 – Maria Grazia Calandrone conferma l’articolazione complessa e sostanziosa dei suoi percorsi poetici. Scrive testi come monologhi o frammenti poematici, mescolando pensiero inquieto e immagini, concreto e astratto, in versi di misura estremamente variabile. Nelle poesie di maggior concentrazione e sintesi compie un passo in avanti. 

Guido Mazzoni“Almanacco dello Specchio” (Mondadori 2006) – […] l’allungamento smisurato del verso, quasi che Calandrone non potesse andare a capo prima di aver esplicato le implicazioni interne a ogni dettaglio. E’ uno stile che può ricordare, per somiglianza di famiglia, quello di Amelia Rosselli o di Milo De Angelis, ma che ha un tono singolare e riconoscibile. Se pochi componimenti sembrano davvero necessari in ogni loro verso, molti testi contengono frammenti memorabili. Ma forse la ragione dell’interesse che la poesia di Calandrone suscita sta proprio nella sua spiazzante mancanza di misura. E’ grazie a questo eccesso che Come per mezzo di una briglia ardente cerca di rompere la patina della miopia quotidiana e di restituirci il senso della nostra precarietà, della nostra esposizione. 

Matteo Fantuzzi, “Poesia 2006 – Annuario” (Castelvecchi, 2006)
 

Luigi Cannillo, “Le voci della luna”, marzo 2007 – […] il destino umano, il rapporto con l’Altrove, le componenti della materia e del corpo vengono rovesciati e travasati gli uni negli altri, in un Trattato Emotivo dove fisica e spiritualità, meccanica e pietà convergono in un approccio e in strumenti linguistici originali e insoliti nella poesia contemporanea. […] Proprio nel testimoniare la ricchezza della terrestrità, i suoi fenomeni, sta l’energia di questi versi la terra che ospita i viventi e li accoglie nel congedo. 

Sandro Montalto, Forme concrete della poesia contemporanea (Joker 2008) – Maria Grazia Calandrone torna sul tema della morte della madre con il penetrante Come per mezzo di una briglia ardente che ripropone la scansione poematica, il verso iperlungo, l’esuberanza analogica e una sorta di concezione polifonica o meglio pluriprospettica della poesia già manifestata in La scimmia randagia, ambizioso libro che intende raccontare in versi l’essere “uomo”, pensante e pensato, sapendo utilizzare a scopi antropologici seri il tema della maternità che solitamente si presenta come banale mito nella poesia femminile, incompreso dalle poetesse stesse. La scimmia randagia è un ottimo esempio di poesia non-maschile che non si accontenta di essere superficialmente femminile, un fecondo punto di partenza per un proficuo dialogo tra pulsioni poetiche, senza recriminazioni o poetismi. Tornando alla più recente pubblicazione, il tema accennato è invasivo, onnipresente, tinge i versi non di staticità ma certo di un qualcosa di fosco, terragno e non enfatico anche quando ha slanci verso il solenne, il rituale e quasi il profetico davvero affascinanti: “Questa appendice terrestre detta Cielo – o Dovere / – o Giudizio, ha bisogno del quoziente melmoso e gravitazionale dei corpi / per colpire e redimere. (Risuscitare?) / dorsali di animali dalla polvere). Niente altro – non altra / giustizia capisce, nessuna fanghigliosa pesca di frodo. Questa / deduzione è la morte – la non più / sacrificabile sovrapposizione plebea delle sostanze”. La poesia di Calandrone non permette scansioni precise, ingabbiamenti, basti osservare come nella prima densissima sezione Tremenda semplicità della morte, forse a contrasto con tale semplicità, il mondo si palesa attraverso una sorta di “futurismo psichico”: “Marciano come eccezioni proverbiali, intrusioni / di odori e sensi / inversi nella sterpaglia della parabola / generazionale. Non hanno antenne / e non hanno ali – il loro corpo / è bianco / è una porta. La testa / sente il peso della declinazione”. D’altra parte ciò che resta, il mondo, e la vita di chi resta, merita un rispetto che il dolore del distacco potrebbe cancellare, un rispetto che la poetessa ci ricorda con alcuni versi icastici e che fugano sia la monotonia degli sconsolati sia la fastidiosa involuzione uterina di molta poesia femminile: “Dove termina / il pensiero non resta che constatare / l’esistenza / la soavità della mandria / l’orma / del pitecantropo. Selce / della famiglia eretta / (a sacramento)”. La forza di questa silloge davvero preziosa si manifesta ovviamente anche in molti altri aspetti, da una certa attenzione fonica che la struttura espansa riesce a conservare, alle spie che saldano la struttura intrapoematica e la collegano alla tradizione (pensiamo al viola, fiore e colore associato alla morte, potenziato da un’assonanza: “E tu violenta e rassegnata nella vestina smalvita: una reliquia”). Ma è una forte autoconsapevolezza quello che rende il tutto davvero necessario (“Ogni cosa toccata dal sole è coronata dalla sua smagliatura”, e si noti bene il secondo verbo), la decisione ferma di non abbandonarsi e di restare qui, a combattere: anche se a contatto “con una imperdonabile morìa” è ben definito il confine tra chi va e chi resta (i morti “Entrano”, il “suo viso” vive “nel proprio rimpianto”, ma al verso successivo l’aggettivo “nostra pena” sancisce una distanza, una diversa direzione). Senz’altro si tratta di uno dei più bei libri su questo argomento negli ultimi anni.
 

l’Ombra delle Parole 16.5.15 Giorgio Linguaglossa

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