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Fuori dal cielo (Empiria, 2007)

Umano nonostante la pioggia
(Waterloo)
 
Dai boschi a est il trasalimento delle armate
sotto la lente madida del cielo
e la chirurgia militare, la fioritura
spavalda dei pennacchi della truppa – con le tracce
lasciate dai bottoni
e dai moschetti sulla cassa toracica della guardia imperiale.
 
Il pomeriggio non regge la snervata freddezza della figura umana e ne rivela l’intenzione
di dimostrarsi
appiedata nel sole tra le autobotti e i rozzi
macchinari industriali
nel retro dei palazzi: angoli luminosi di un volto messo a nudo come feccia. Esperimenti
di indivisibilità di essa
dalla faccia, dall’osso liminare
della caviglia. L’anima
alla fine mi diceva – figlio!, mia superiore
emanazione, conquisterai l’Europa a mani nude.
 
Ci presentiamo schierati nel vento storico. In uniforme
nella prolissità della terra. Il fischio
posturale delle montagne sigillate dal vento. La sciabola
pende dal fianco che non trema e non è sublime.
 
Ai primi albori la mimesi equestre del bosco
sotto il ghiacciato
cannoneggiamento della grandine. Il suo impatto sul corso della storia. Non potevamo
prevedere che l’argilla del suolo si sarebbe sciolta
fino all’attaccatura delle foglie insieme
all’orgoglio degli uomini.
 
Il dardeggiante contrattacco del cielo, la salmodia distante delle donne e al confronto
la piccolezza dell’imperatore sotto la tempesta
di ferro cavo. L’energia dei lancieri promossi sul campo
assorbita dalla latitudine mista del suolo.

Calcolata la solitudine lunare
(esperimento di Philadelphia)
 
Un lunghissimo inverno nell’olfatto dei cani – nel rombo
luminescente dei generatori – come la solitudine di una nave dal fianco fulgido
tra le altalene e le ante
del porto – separata da spazi equivalenti
al ritorno.
 
I corpi dei marinai fusi ai metalli della struttura portante
e ai manufatti (alle foto di altri che erano
invocazione
a noi mescolati
al ferro, erano una intrusione
della realtà) nella tempesta magnetica che interferì col volo
amichevole o indifferente degli uccelli.
 
Dalle molecole delle mie vertebre sorgeva a spanne l’albero
maestro – ero
la randa, un arsenale. Poi il mio corpo divenne un dettaglio
del tuo petto, una costola
d’Eva – il mio corpo
inaudito, come lo ricordavi.
 
Rumorosa osservazione di luci ricadenti
sulle lamiere – nell’unità dei campi. L’urto infinito di un albatro
sulla sostanza minerale dei lampi, una lapide immersa nelle ortiche ma in volo.
 
28 febbraio 2004    

Il crollo anchilosato di una cosa
(dialogo tra sconosciute)
 
Resta un buco nerissimo nel tempo – un vestito di polvere
e catrame, lo stacco da terra
del tallone di lei quando voltava tra schiamazzi erbacei di terriccia – resta come un mucchietto di cenere
il gesto che faceva – il suo piccolo corpo chinato
e corale, ritagliato seguendo il disegno del gesso
sulla stoffa azzurra
del cielo che sta sopra le campagne e conosciamo
perché al fondo di tutta la distrazione c’è quella
immensità, quel pettinarsi
e basta.
 
Resta il dubbio su come muovesse spontaneamente le mani – come un corpo
maturato nella stazione eretta benché porti un peso: la fronte
resa complessa da una lunga opera
di adattamento; poi
scavalcava la finestra per tirar dietro alla palla (International) nello spazio 
preciso e smagliante – dopo tre soli-giorni
di bel tempo: un triangolo d’alberi e in fondo
alla polveriera delle ginestre
la montagna del corpo della madre, quello
che di un essere umano la luce arriva a toccare.
 
Annina (la madre, una cosa poco oscura):
Se resto in casa lei mi sente vicina. Lascio entrare la luce del suo destino
dalle finestre, abito
nelle cose come nell’innocenza
di una visione, inclino
il mio corpo a una parte felice: appoggiata al suo braccio.
 
Certe mattine scendo insieme a lei
fino al mercato – non comperiamo
niente, noi siamo sopraffatte dai colori
e dagli odori complicati che si fanno
dove gli esseri fisici si radunano. Ma piuttosto resisto fino alla luce piuttosto resto
a ponente
nella sera che tornerai davvero: come nei compleanni primitivi
il marchio lancinante del paradiso – una cosa che illumina all’indietro
la lunghezza del corpo. Tendo le mani
perché pietà!
hai, di questo morto
dialetto di scimmia.
 
Io sono il giorno anzi l’istante adriatico
del giorno nel quale ho accompagnato con lo sguardo
la salute felina della sua figura
che elargita e radiosa si allontanava dentro
la chiacchiera rapida e sediziosa dei pettirossi fuori dal mondo (in una sera
più grande del mondo: io
senza io
né mondo) portando l’insonnia e la costruzione di una campagna verosimile molto lontana dal mio congenito
sporgermi verso.
 
Angela (la figlia, piuttosto da lontano – sullo sfondo):
C’è questa donna che mi fa regali
nel sonno come fossi una bambina, qualcosa che sta
al mondo come un piccolo calore: lei
mi rincorre, mi fa ridere
di quel riso alfabetico e armonioso di tutti gli altri bimbi cittadini.
Quando sono malata – in quella strana lingua
zodiacale – mi dice cose che non mi aveva detto la mia stessa madre. Poi
siamo insieme sulla sabbia salata
come due impalcature: zitte – vicine.
 
Sentiva sempre la bambina piangere – dal coma – dallo sfascio
vertebrale – cantava
essenzialmente, per calmarla – il suo canto incosciente
dissaldava
l’armatura di ogni lontananza.
 
Annina:
Penso che la sua mano sia spiccia e docile come una nocciola.
Il suo sonno è uno strappo: vento!, vento… – o brace delle origini
sul bucato, il fresco di una lingua da poco
riappresa – un mattino che sono
torturata dalla gioia di essere viva come questo capello
da cent’anni in disordine sulla mia spalla – questo fenomeno
vitale del tuo corpo che mi fa dire bentornata Angelina: ecco il mio corpo: quello
che della luce un essere umano arriva a toccare.
 
Angela:
Il punto di riferimento dei miei sogni è una montagna, un corpo
grande che scivola
lungo i fusti delle ginestre sotto una pioviggine di limpidezza
fotografica e allenta il terreno – spiega
l’ispirazione imprecisa e accorata delle spighe al cielo. Se ne sente
l’investitura pittorica: un complesso sensibile
una smagliante
lacerazione lenta come un’anima che non vuole andarsene
dal corpo. Poi c’è qualcuno
che mi prende per mano e io senza volere
dico mamma – poi
mi vergogno, ma tocco la sua mano e conosco che è uguale
e riguarda il mio viso.
 
Per qualche tempo la bambina manifestò comportamenti ombrosi:
facevamo il suo nome
come un sordo invocare di bestia nel crepuscolo
dai crepacci di fresco delle finestre – perché si addormentava
oltre i campi adattati al sereno
temperamento delle bufale – severi e bianchi
di bontà e amarezza dalla parte che toccano il cielo
e dunque sembrano restare appesi
per le cime all’infarto celeste
o andare incontro a una morìa d’azzurro
nella brodosa calamità della zolla: cadeva a terra come
a una chiamata – e dentro il nero pareva
tacere senza confine o finalmente
ridere: l’animale materno
piegava in un assenso
uguale a terra e cielo. Gli sconosciuti
si conoscono in sogno perché emerge una terra senza risacca
dal loro volto e il corpo ha una lontananza
calpestabile e arde fino al mare. Noi pensavamo quello
che non la scempia la solleva. Ed è andata così.
 
Annina: Mai!
ti ho lasciata, ho bloccato il teatro della vita
a quand’eri vicina: la testa
diritta e in tutto il corpo la musica di un carapace che abbandona il mare. Avevo superato ogni interesse: ero
calda e santa.
 
Angela: Eccomi,
sono di fronte come un quadro, vorrei che si capisse
dove il corpo diventa
pietra e in quale spacco della pietra posi
l’anello: il tempo quasi
richiuso, la goccia
dell’istante che quadra. Eccomi: ora dichiarami
la mia esistenza.
 
Annina: questa no, non è questa
la mia bambina, non mi scherzate
perché sono vecchia: quando torna farò
molta attenzione. Sarà pronto l’olfatto, l’acume
terra-cielo della vista (ci vuole
una vista per l’erba e una per l’istante
del distacco) e il rigore
splendido della mente: Angelina
– stavolta al campo ti accompagna mamma.
 
25 giugno 2004

Nuove voci della poesia italiana fra parole interdette e corpi feriti, Marco Giovenale
(“il manifesto”, 24.2.07)

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