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La macchina responsabile (Crocetti, 2007)

Editore: Crocetti Editore
Collana: Aryballos
Data uscita: 2007
Pagine: 134
Lingua: Italiano
EAN: 9788883061776
Listino: € 14,00
 
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finalista Premi Mario Luzi e Terme di San Giuliano 

  
 
 
 
 
Dal mondo esposto
 
L’amore è la salute della scimmia.
Gli occhi dell’asino santo imbrattati dal vedere
la ruggine quieta delle cisterne.
 
Vento che arrota l’erba, l’ultravioletto calice
della sera come una latitudine radiante.
 
O il mare e i pomeriggi
composti dall’involucro ninfale della cicala.
 
Dammi le prove della tua gioia
nella carcassa del quotidiano
che rodi fin che è luce, luce…

 
da Apocalisse dell’animale grande
 
Nel fronte interno srotolano i dispacci sotto lampade da miniera
e l’ignoto attraversa il paese come filo spinato che sente
battere la pala dei fanti, lo smalto
delle gamelle contro la latta
e metri d’aglio. Maria, abbiamo
del gran danno nella testa
sporca di bestia che scappa
sottoterra, abbiamo nella groppa il crollo dei muli
sotto il peso plebeo dei materiali. Dammi il cuore
Maria, perché il tuo cuore
pesi come la terra tra le mani
mentre io ti raggiungo sotto il pericolo. Maria, con i pensieri
che non smettono mai di pensarmi, anche dopo
tienimi a te, al mio posto
sulla terra dei nomi. Solo tu
sai il mio nome Maria, perché il mio nome è all’orlo
della tua gola, bianco
come un affogato nel canale
sepolto nel tuo bianco che rinviene. Anche dopo,
stanotte, quando io sarò cenere, pronunciami Maria con il tuo corpo.

Estratti critici

Antonella Pizzo, I morti passano, le poesie restano. Per questo sono grata ai poeti (“Letture (e scritture)”, 6.2.11)

Dopo la morte di mia figlia Martina, avvenuta a causa di un incidente stradale nel febbraio del 2001 (e quindi dieci anni fa, ed è questa la ragione di questi miei post, in modo come un altro per ricordarla, per ricordare le numerose vittime della strada, affinché qualcosa si faccia per fermare la strage) ho inviato la sua foto e la mia testimonianza all’Associazione Vittime della Strada, affinché fossero inserite in uno degli opuscoli della memoria, testimonianza viva del fenomeno. Scrive sul sito dell’associazione il primo presidente in merito alla necessità di questi opuscoli: “Nelle intenzioni di chi le ha volute – dei pochi che hanno avuto il coraggio di affondare le mani al centro del loro dolore per trarne una storia e una foto – queste pagine devono essere insieme memoria e monito. Dopo avere raccontato la mia vicenda, come altri, in un libro, io non ho avuto quel coraggio; ed anche ho temuto che l’esiguo numero di storie potesse trarre ín inganno sulle reali dimensioni del fiume di sangue e di lagrime che attraversa l’Italia, o sulla capacità della nostra dolente struttura di incanalarlo a fini di vita. Chi ha curato le pagine mi dice che ce ne saranno altre; forse allora quelle dimensioni appariranno più chiare, forse anche io sarò di nuovo pronta. Ma intanto voi che dall’altra parte aprite queste pagine col rispetto dovuto a chi ha perso tutto, spiegateci come potete accettare che quel fiume continui a scorrere e crescere ogni giorno.” (Marcella Castellini – primo presidente dell’associazione). La mia testimonianza apparve nel quarto opuscolo, oggi gli opuscoli sono diventati dodici, questo fa male perché significa che i morti sono davvero tanti. Stralci di testimonianze dei familiari delle vittime della strada che ho deciso di inserire in quattro post in memoria, che usciranno a partire da domani uno al giorno, sono tratte da questi opuscoli; raccontano le storie vere di Vania, Manuel, Tommaso, Athanasios e saranno  accompagnate da alcuni versi, ispirati dalle suddette testimonianze di Maria Grazia Calandrone. I versi, a loro volta, sono tratti dal trittico Ministero della realtà teatro di sinistri mortali. Negli opuscoli di sangue e di materia cerebrale (in senso proprio di materia grigia e sangue che imbrattano l’asfalto) su cui lavorare purtroppo se ne trova tanta, anzi troppa.

Mi sono imbattuta in questi versi casualmente. Accadde nel 2004 in occasione della mia partecipazione al Premio Turoldo.  Prima mi fece  strano riconoscere nel testo di Maria Grazia Calandrone, con il quale anche lei partecipava al Premio Turoldo 2004 alcune frasi che avevo letto negli  opuscoli della memoria, fra le quali una brevissima scritta da me. In seguito lo strano si trasformò “piacere” (fra virgolette, non si può trovare nessun piacere nel vivere queste tragedie, ma non trovo un termine diverso). Un “piacere” maggiore ho provato quando l’autrice mi ha donato il Nono quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2007) contenente il testo e  l’indicazione che le frasi in corsivo erano state tratte dagli opuscoli delle “Vittime della strada”, (ne feci espressa preghiera, che la Calandrone cortesemente esaudì).
Poichè Maria Grazia Calandrone è un poeta affermato spero che ai familiari delle vittime della strada la cosa possa far  “piacere”, così come lo fece anche a me, perchè i morti passano e le poesie restano.
Chi si ricorderà di mia figlia fra 100 anni? Nessuno; è probabile, invece, che la poesia della Calandrone resterà. Della testimonianza scritta malamente da un familiare addolorato nessuno si ricorderà, di un dolore non provato sulla propria pelle ma empaticamente elaborato in forma di buona poesia di certo il mondo si ricorderà e ne riconoscerà la portata. Questa è la forza della poesia,  testimoniare, raccontare, rappresentare, tenere vivo il ricordo,  quel ricordo che se espresso male è destinato a perdersi nel nulla. Per questo sono grata ai poeti. 

Andrea Cortellessa, Nono quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos 2007)
Nell’ultimo triennio, l’epifania di Maria Grazia Calandrone ha colto tutti di sorpresa. Se sono ancora possibili sorprese di questo genere, mi dicevo e mi dico, tutto è ancora possibile. Poi mi sono imbattuto in un verso di Anatomia nucleare che sintetizza in un lampo, incenerendolo, tutto questo ragionare: «Il peso enorme delle mie parole è una traccia sommersa, un ultrasuono». Ed è proprio così. Era questa infine, mi dicevo, la spiegazione dell’enigma che risponde al suo nome, della sua particolarità di venire da prima, e da lontano
[…] Non assistiamo all’estasi asettica e inumana del crash, bensì a quanto viene dopo (immediatamente dopo, magari). E la temperatura non è gelida; è incandescente, cioè umanissima. Quel che invece perturba, di simile, è la presenza urticante del lessico tecnico, di quella vulgata: dalla longherina irregolare e scoperta alle ruote gemellari del rimorchio, dalle piastre antisfilamento alla teca muriatica. L’infestante precisione d’un lessico materico, proditoriamente antilirico, in una partitura invece così lirica, è un altro connotato eminente – forse fra tutti il più ammaliante – del peso di questa poesia. Viene da pensare allo Zanzotto più clinico, all’implacabile radiologo del paesaggio e della storia. Il mio nome è lesione, diceva indemoniato un Io della Beltà. Quella Lesione non è ancora cauterizzata, quella ferita non è rimarginata. È qui che sanguina. Responsabile di ciò, si capisce, è la poesia: questa macchina. Così pesante – così sfrecciante. 

Laura Pugno, “il manifesto”, 5.7.07 – […] varrà sottolineare come sia Maria Grazia Calandrone ad affermare, ne La Macchina responsabile, una così grande fiducia nei mezzi della poesia da poterne bere fino in fondo «l’ultravioletto calice» senza temerne la potenza tossica, ma anzi neutralizzandone il veleno segreto, che risana e riporta in uso parole e oggetti che sembravano perduti per tuffarli di nuovo, immediatamente, nella materia fangosa del dolore, dalla cronaca degli incidenti stradali e delle stragi del sabato sera, alla storia nera dell’Olocausto e di Hiroshima. 

Stefano Raimondi, recensione al IX Quaderno italiano di poesia contemporanea, settembre 2007 – […] la tragedia/tensione esistenziale della Calandrone sa come stabilirsi su tonalità che la trattengono nell’urlo e nella carezza. Tutti si svolgono nei passaggi di un tempo dove la poesia chiede udienza, lasciando spazio alla tensione dei rapporti con il contesto. 

Stefano Lecchini, “Gazzetta di Parma”, 5.1.08 – […] Tutt’altro che sorda alle tragedie della Storia (come le nefandezze della Shoah, qui folgorate in versi che non si dimenticano), questa poesia forse non ignora che nell’occhio buio, nel “volto / disordinato” del disastro possono continuamente riaffacciarsi, e forse risorgere, i colori della gioia. Perciò la voce della Calandrone, slanciata – malgrado tutto – oltre il carcere di ogni metro e di ogni cielo, scende di nuovo, ogni volta, a tumularsi nella terra. La terra, ci fa capire un passo molto intenso di questo libro, ora è un lenzuolo sepolcrale steso sul mare ove infuria la battaglia: ma solo accettando la profondità, anche luttuosa, delle sue fibre, forse l’Io potrà evitare di smarrirsi completamente, di soccombere al disastro, di rinunciare a preparare gli occhi al ritorno della luce. 

Stefano Guglielmin, “L’Indice”, 2008 – La macchina responsabile sviluppa, nelle tre sezioni che lo compongono, una biografia sommersa sopra la quale si stende l’intrico del mondo, il “paradiso non finito del mondo”, messo in scena per celare pudicamente un intimo dialogo con l’ombra materna, con il suo corpo, ormai “Estraneo” e “Minerale”. Rispetto ai suoi precedenti libri, Calandrone scioglie il connaturato surrealismo in un canto tragico, che tocca con maggiore immediatezza il lettore, gettandolo nell’esperienza della perdita, venata tuttavia da una luce albale, che si adagia su chi resta, “estrema razza azzurra”, mentre sulla crosta terrestre brulica una materia scura e senza speranza. Questa luce permea anzitutto la lividissima mater archetipica, il mare-grembo striato dal “cherosene”, nel cui umore galleggiano i detriti dell’occidente sconfitto (emblematicamente incarnato, nella seconda e terza parte del libro, da eventi luttuosi tratti dalle due guerre mondiali), ma riposa anche “la viscerale / pace della persona”. Recuperando infatti la lezione del Sanguineti laborintico, la poetessa romana costruisce, con questo intensissimo libro, un “colatoio alchemico”, una macchina responsabilmente agita dalla lingua, in cui si filtra “l’oro del mondo”, che è eredità d’affetti e capacità di toccare con le parole, di benedire l’esistente alla maniera di Rilke, nella pienezza della presenza inconsapevole. Ecco allora che la verità dell’essere, sopratutto nella prima sezione, si legge per esempio nella “ruggine quieta delle cisterne”, mentre colpevole appare la specie integrata, l’uomo ad una dimensione dell’odierna civilizzazione. Procedendo nella lettura, il contrasto si attenua, sino a stemprarsi in pietas verso le secrete cure dei mortali, mutando così il canto in preghiera, e, il destino dell’io narrante, in quello di tutti i sopravissuti. 

Roberta Bertozzi, “Atelier”, 2008[…] Su tutte queste miscele spicca l’accostamento di codice liturgico e codice settoriale delle scienze e della tecnica – una combinazione la cui ricorsività, di là dall’immediato effetto straniante, tende a divenire spia ultrastilistica: il raccordo tra dizione sacra e dizione profana, la loro incessante traslazione, è funzionale alla formazione di nuove concrezioni di senso, nuovi alveoli di culto intorno alle forme e alle cose. Ovunque nei versi trapela questa nota di apprensione, di trasporto partecipante, diretta a circondare ogni dato di realtà di ulteriore spessore, volta a fare della poesia un pegno di risarcimento per ogni essere, per ogni creatura che l’autorità razionalistica e mercantile ha strumentalizzato, che la storia ha depredato di valore e vita: «Io ti chiamo io ti faccio risorgere io ti stringo / ai miei fianchi come uno stendardo io ti tengo sdraiato sulle braccia / intero come fossi tua madre come il sole / evirato, distrutto, ricomposto da me con questi nodi». In un esercizio di continua elezione e di paziente, femminea, ricucitura, accanto a ciò che è sacro per antecedenza e statuto fanno la loro comparsa le nuove, riconvertite sacralità, compare «il paradiso della terra / tra ghiandole di nichel / e poliedri»: epifanie di cui ogni suo testo ci restituisce la totalità psichica e climatica, di evento regale e insieme domestico, arcano eppure prossimo, sempre filtrato, e preservato nella sua integrità, da una grammatica percettiva privatissima e quintessenziale. L’esterno, il mondo, è in perfetta osmosi con l’esperienza interiore da esso stimolata, la loro reciprocità è totale: corrispondenze e somiglianze si avvicendano senza soluzione di continuità, come variazioni, piccole oscillazioni sul corpo di uno, e solido, antefatto metaforico, omnipervasivo e ridondante, che si dispiega come un pattern. Maria Grazia Calandrone fa un uso estensivo della metafora, uso che ricalca questa intuizione di un’interdipendenza cosmica fra gli esseri […] 

Roberto Carifi, “Poesia”, giugno 2008 – […] Si tratta, come dicevo, di alcune delle poetesse più brave di oggi e vorrei segnalare Maria Grazia Calandrone, che persegue – come afferma Francesco Carbognin nelle prefazione – “quella che costituisce sotto il profilo stilistico la più intima cifra della propria scrittura: un enthusiasmòs, un impeto lirico rampollante”. 

Vincenzo Di Maro, “Poesia”, luglio 2008 – […] dalla Calandrone dei cola elegiaci de L’Amore umano, di ascendenza rilkiana e luziana, come rileva Carbognin ( … con la parte del corpo ancorata alla terra/ trascina in terra/ la remissione e un transito di legni…) alla quasi minerale dolenza delle bellissime Diecimila civili e De umani corporis fabrica […] 

Alberto Cappi, “la Voce di Mantova”, 18.9.08 – Il lavoro in oggetto è una pratica scritturale dallo stile alto e densa di senso. Fioriscono, entro un campo in cui i segni hanno andatura animata, i temi della corporalità, della morte, della distruzione: temi e motivi che rispondono all’etica autoriale. Soffia sui lemmi il vento della storia, i significati si dinamizzano e si aprono ala coscienza e al dono estetico che loro è consegnato dal linguaggio: “Il Nome spazia / sulla faccia di gelo della natura”. 

Marilù Oliva, “Thriller Magazine”, 4.3.09 – […] la complessità, il fascino e la forza di questa musa del crepuscolo. La macchina responsabile è una raccolta di liriche sul tema colpa/destino, in cui guerre di trincea e guerre di tutti i giorni, stragi — di Babi Yar e Hiroshima — sono il quadro incorniciato dal  paradigma di un uomo condannato alla sua umanità. Ed è un’umanità sofferente, incompiuta, in balìa della tragicità del fato. Un’umanità calata in una natura a volte ostile, a volte vittima, in cui il male, la morte, ma anche la vita hanno lo stesso raggio concentrico e gridano al vento la loro ineluttabilità. L’attenzione per l’attimo della quotidianità si dilata alla tensione per la storia in senso lato. Nascono così liriche forti ed emozionanti come Anatomia nucleare. 

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