La macchina responsabile (Crocetti, 2007)
L’amore è la salute della scimmia.
Gli occhi dell’asino santo imbrattati dal vedere
la ruggine quieta delle cisterne.
Vento che arrota l’erba, l’ultravioletto calice
della sera come una latitudine radiante.
O il mare e i pomeriggi
composti dall’involucro ninfale della cicala.
Dammi le prove della tua gioia
nella carcassa del quotidiano
che rodi fin che è luce, luce…
da Apocalisse dell’animale grande
Nel fronte interno srotolano i dispacci sotto lampade da miniera
e l’ignoto attraversa il paese come filo spinato che sente
battere la pala dei fanti, lo smalto
delle gamelle contro la latta
e metri d’aglio. Maria, abbiamo
del gran danno nella testa
sporca di bestia che scappa
sottoterra, abbiamo nella groppa il crollo dei muli
sotto il peso plebeo dei materiali. Dammi il cuore
Maria, perché il tuo cuore
pesi come la terra tra le mani
mentre io ti raggiungo sotto il pericolo. Maria, con i pensieri
che non smettono mai di pensarmi, anche dopo
tienimi a te, al mio posto
sulla terra dei nomi. Solo tu
sai il mio nome Maria, perché il mio nome è all’orlo
della tua gola, bianco
come un affogato nel canale
sepolto nel tuo bianco che rinviene. Anche dopo,
stanotte, quando io sarò cenere, pronunciami Maria con il tuo corpo.
Estratti critici
Antonella Pizzo, I morti passano, le poesie restano. Per questo sono grata ai poeti (“Letture (e scritture)”, 6.2.11)
Dopo la morte di mia figlia Martina, avvenuta a causa di un incidente stradale nel febbraio del 2001 (e quindi dieci anni fa, ed è questa la ragione di questi miei post, in modo come un altro per ricordarla, per ricordare le numerose vittime della strada, affinché qualcosa si faccia per fermare la strage) ho inviato la sua foto e la mia testimonianza all’Associazione Vittime della Strada, affinché fossero inserite in uno degli opuscoli della memoria, testimonianza viva del fenomeno. Scrive sul sito dell’associazione il primo presidente in merito alla necessità di questi opuscoli: “Nelle intenzioni di chi le ha volute – dei pochi che hanno avuto il coraggio di affondare le mani al centro del loro dolore per trarne una storia e una foto – queste pagine devono essere insieme memoria e monito. Dopo avere raccontato la mia vicenda, come altri, in un libro, io non ho avuto quel coraggio; ed anche ho temuto che l’esiguo numero di storie potesse trarre ín inganno sulle reali dimensioni del fiume di sangue e di lagrime che attraversa l’Italia, o sulla capacità della nostra dolente struttura di incanalarlo a fini di vita. Chi ha curato le pagine mi dice che ce ne saranno altre; forse allora quelle dimensioni appariranno più chiare, forse anche io sarò di nuovo pronta. Ma intanto voi che dall’altra parte aprite queste pagine col rispetto dovuto a chi ha perso tutto, spiegateci come potete accettare che quel fiume continui a scorrere e crescere ogni giorno.” (Marcella Castellini – primo presidente dell’associazione). La mia testimonianza apparve nel quarto opuscolo, oggi gli opuscoli sono diventati dodici, questo fa male perché significa che i morti sono davvero tanti. Stralci di testimonianze dei familiari delle vittime della strada che ho deciso di inserire in quattro post in memoria, che usciranno a partire da domani uno al giorno, sono tratte da questi opuscoli; raccontano le storie vere di Vania, Manuel, Tommaso, Athanasios e saranno accompagnate da alcuni versi, ispirati dalle suddette testimonianze di Maria Grazia Calandrone. I versi, a loro volta, sono tratti dal trittico Ministero della realtà teatro di sinistri mortali. Negli opuscoli di sangue e di materia cerebrale (in senso proprio di materia grigia e sangue che imbrattano l’asfalto) su cui lavorare purtroppo se ne trova tanta, anzi troppa.
Mi sono imbattuta in questi versi casualmente. Accadde nel 2004 in occasione della mia partecipazione al Premio Turoldo. Prima mi fece strano riconoscere nel testo di Maria Grazia Calandrone, con il quale anche lei partecipava al Premio Turoldo 2004 alcune frasi che avevo letto negli opuscoli della memoria, fra le quali una brevissima scritta da me. In seguito lo strano si trasformò “piacere” (fra virgolette, non si può trovare nessun piacere nel vivere queste tragedie, ma non trovo un termine diverso). Un “piacere” maggiore ho provato quando l’autrice mi ha donato il Nono quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2007) contenente il testo e l’indicazione che le frasi in corsivo erano state tratte dagli opuscoli delle “Vittime della strada”, (ne feci espressa preghiera, che la Calandrone cortesemente esaudì).
Poichè Maria Grazia Calandrone è un poeta affermato spero che ai familiari delle vittime della strada la cosa possa far “piacere”, così come lo fece anche a me, perchè i morti passano e le poesie restano.
Chi si ricorderà di mia figlia fra 100 anni? Nessuno; è probabile, invece, che la poesia della Calandrone resterà. Della testimonianza scritta malamente da un familiare addolorato nessuno si ricorderà, di un dolore non provato sulla propria pelle ma empaticamente elaborato in forma di buona poesia di certo il mondo si ricorderà e ne riconoscerà la portata. Questa è la forza della poesia, testimoniare, raccontare, rappresentare, tenere vivo il ricordo, quel ricordo che se espresso male è destinato a perdersi nel nulla. Per questo sono grata ai poeti.
Roberta Bertozzi, “Atelier”, 2008 – […] Su tutte queste miscele spicca l’accostamento di codice liturgico e codice settoriale delle scienze e della tecnica – una combinazione la cui ricorsività, di là dall’immediato effetto straniante, tende a divenire spia ultrastilistica: il raccordo tra dizione sacra e dizione profana, la loro incessante traslazione, è funzionale alla formazione di nuove concrezioni di senso, nuovi alveoli di culto intorno alle forme e alle cose. Ovunque nei versi trapela questa nota di apprensione, di trasporto partecipante, diretta a circondare ogni dato di realtà di ulteriore spessore, volta a fare della poesia un pegno di risarcimento per ogni essere, per ogni creatura che l’autorità razionalistica e mercantile ha strumentalizzato, che la storia ha depredato di valore e vita: «Io ti chiamo io ti faccio risorgere io ti stringo / ai miei fianchi come uno stendardo io ti tengo sdraiato sulle braccia / intero come fossi tua madre come il sole / evirato, distrutto, ricomposto da me con questi nodi». In un esercizio di continua elezione e di paziente, femminea, ricucitura, accanto a ciò che è sacro per antecedenza e statuto fanno la loro comparsa le nuove, riconvertite sacralità, compare «il paradiso della terra / tra ghiandole di nichel / e poliedri»: epifanie di cui ogni suo testo ci restituisce la totalità psichica e climatica, di evento regale e insieme domestico, arcano eppure prossimo, sempre filtrato, e preservato nella sua integrità, da una grammatica percettiva privatissima e quintessenziale. L’esterno, il mondo, è in perfetta osmosi con l’esperienza interiore da esso stimolata, la loro reciprocità è totale: corrispondenze e somiglianze si avvicendano senza soluzione di continuità, come variazioni, piccole oscillazioni sul corpo di uno, e solido, antefatto metaforico, omnipervasivo e ridondante, che si dispiega come un pattern. Maria Grazia Calandrone fa un uso estensivo della metafora, uso che ricalca questa intuizione di un’interdipendenza cosmica fra gli esseri […]
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