Atto di vita nascente (LietoColle Graal, 2010)
Non sorga il sole della nostra fine, non a te che hai radice di primo vento
all’alba, non a me che ho la voce nuda degli oggetti che aspettano
giustizia, la voce dei papaveri e dei campi, l’ira dei flauti e delle tele, gli archi
dalle bocche di vento: ecco la sposa, ecco la primizia
di tutte le stagioni, l’ombra fuggevole dei meli agri
sul tuo petto, e di notte le stelle cadenti, un angelo fra gli albicocchi dello Ionio.
Lavoravamo il grano a braccia nude; cominciò la raccolta
dei meloni d’inverno, e il primo temporale ci serrò
sottocoperta: dal baule come un frutto di mare cresce la camera da letto, dal mare
torna il mio sposo del mezzogiorno, domani, dal mare.
Un giorno ancora e guarirai
la fatica di credere. Sei mio fratello, sei il mio sole avaro; sono la sposa
del Mediterraneo, tua sorella. In me schiuma il tuo mare, il suo lamento
serale, e la tua messe di cèrcini neri: qui
ti inginocchi ai mandorli dei campi, sul mio viso,
e alla cenere. Fascio d’erbe aromatiche, creanza della sera, vola sul grano del mio petto e dormi
per bisogno di luce.
CONGEDO DAL SANTUARIO TERRESTRE
VI
Vedo lei, affacciata
dalla finitudine sua
sul bianco raccolto
scivolamento
in un gonfiore di germoglio
e di pianto finito
nello schianto del mare. Vedo una viola
di latte
che cola
tra spalancate braccia
d’acqua dolce. Poi vedo il mare muoversi come un telo di altare
io vedo l’ostensione
della sua bellezza
sotto alte infreddate costellazioni. Le ginestre
dopo: all’angolo estremo dell’occhio, poco prima del niente.
Il mare è dove la strettoia del fiume diventa beatitudine
è la pianura senza gravità
dove il carico
si disfa. Riconosciamo il mare
dall’odore infantile che gli prende la terra
vicina
alla punta pulita dei piedi
esposta per prima
nelle calze
e da una irragionevole felicità negli omeri, che stanno
per affidarsi al nuoto, per allungarsi
come radici, congedarsi.
Estratti critici
Luca Manes, Una conquistata rinascita, “Avanti!”, 9.11.10 – Di solito la bestia è nera, rabbiosa, insaziabile. Così la descrive Dante all’inizio del colle, sul punto di cominciare la salita verso la salvezza: “Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta, / una lonza leggera e presta molto, / che di pel macolato era coverta; / e non mi si partia dinanzi al volto, / anzi ‘mpediva tanto il mio cammino, / ch’ì fui per ritornar più volte volto”. È uscito a settembre l’ultimo libro di poesie di Maria Grazia Calandrone (milanese che vive a Roma, performer, autrice e conduttrice per Radio Rai 3), intitolato “Atto di vita nascente” (LietoColle, 79 pagine, 13 euro). Ed ecco che nelle parole della poetessa l’ostacolo, l’impedimento alla salita verso le stelle si trasforma in un luogo, in un “santuario terrestre” dove rifugiarsi. Il disumano che diventa non-umano, innocente, puro, “bianchissimo”.Già nel titolo della prima parte della raccolta, “La bestia bianchissima riposa”, è racchiuso tutto il significato dell’opera. Il riposo della “bestia bianchissima” in attesa che l’uomo gli si faccia vicino, compagno. “La cerva bianchissima riposa / la fronte. Tramonta / nell’umano la bestia / bianca e non svelata che non cela nulla / stanotte le macchine sono le macchine di un’estate finita / a sua somiglianza”. E ancora, nella poesia “La bestia è senza rimedio”: “Tutta l’estate mi hai chiamata, invano, tutta l’estate hai edificato nel bianco / della stortura umana / il bianco della bestia, / il nome fatto / dalla calce dei muri / (…) Lei ha fatto il mio nome”. È una bestia che si aggira per le città, qui, tra noi. Che, sulla calce dei muri, lascia la sua traccia. Che, nel succedersi delle stagioni, estate e inverno, non smette di fare “il mio nome”. Ma chi è, cos’è la bestia che ci attende? E per cosa?“C’è un luogo che nessuna morte tocca, una stanza di fiori / e di specchiere al sole come laghi / verticali di luce / dove la bestia si stende come l’officiare di un pino marittimo. / Di qui. Non vedo. Più niente, nella / altitudine: più niente / increspa la nativa / attitudine / alla felicità”. Ecco la bestia: la casa protetta dove non moriamo. Il campo di fiori e alberi dove la bestia riposa, in silenzio con la sua innocenza, e attende. Attende l’incontro, lo sguardo dell’uomo. E poi più niente. Nulla più che sporca, appassisce il bianchissimo, felice rinascere reciproco. Ma facciamo un passo indietro. “Primo amore” è il titolo della seconda parte del libro. Quasi che la poetessa intenda fermarsi e chiarire a tutti la condizione, la posizione necessaria per l’incontro. “Qui / un sussulto corrisponde / all’aria, e tu lo curi come una ferita, perché nel chiuso / del tuo petto è una serra sonora, a riprova / di quel punto invisibile”. È una spaccatura, una ferita chiusa, protetta nel petto che chiama a “quel punto invisibile”. È necessario che l’uomo sgomberi tavoli, tovaglie e divani. Perché in questo far posto, in questo svuotare vi è allusa la promessa di un incontro, di una crepa che si chiuderà. E l’ingresso in questo mondo animale non ha tanti accessi, sembra dirci la poetessa: “L’amore è una presa dell’anima sul mondo”. Solo amando l’uomo può porsi su quel ramo che ondeggia sulla bestia. E tutto, improvvisamente, si riunisce intorno all’amore che si avvicina. Tutto partecipa di questo vento in direzione di quel punto di non-morte: “All’amore appartiene anche l’inezia, la gramigna dei queruli uccelli/ posati in una pausa dell’aria, sul ramo, disarticolati / o rimossi dal vento”. La crepa che viene sanata. Il pianto che trova ristoro. L’attesa e la solitudine riempite del “bianchissimo” riposo. Dopo l’incontro, al di là dello sfociare umano nell’innocente. I versi della poetessa non si concludono con l’abbraccio alla bestia. Le parole si spingono molto più in là, dentro il permanere dell’innocenza animale nell’uomo all’attimo del congedo. La terza e ultima sezione dell’opera, “Le ginestre poco prima del niente”, si apre con la commovente, e precisa fino all’esasperazione, narrazione del suicidio della madre e del suo rimanere orfana. E con un invito al lettore nell’incisione-dedica a Katherine Mansfield: “L’apprendimento, attraverso la comprensione, porta alla compassione, e quest’ultima appare come la più alta facoltà dell’anima: la sua capacità di avvicinarsi”. Come se la poetessa volesse che il lettore le si faccia vicino. Prossimo alla sua umanità. E questo è possibile solo dopo aver partecipato dei suoi travagli ritornati in versi. Un modo efficace e schietto per conoscerla. Come se il vero rinascere della persona avvenga dopo l’incontro con la bestia, non durante. Al congedo, non nello sguardo. “Riconosciamo il mare / dall’odore infantile che gli prende la terra / vicina / alla punta pulita dei piedi / esposta per prima / nelle calze / e da una irragionevole felicità negli omeri, che stanno / per affidarsi al nuoto, per allungarsi / come radici, congedarsi”. Qui sta il segreto del libro di Maria Grazia Calandrone. “Atto di vita nascente” ha il gusto della rinascita conquistata. Le radici che finalmente si allungano, pronte alla vita. Dopo l’abbandono conflittuale col non-umano. Quando la bestia guarda la sua preda mancata nell’allontanarsi, prima di ritornare al riposo. “Bianchissima” come prima.
Franca Alaimo – […] Dalla com-passione nasce uno dei testi più alti, nitidi e commossi della silloge, che è “Congedo dal santuario terrestre”, in cui Maria Grazia si fa testimone immaginaria e più che mai fedele dell’abbandono del luogo natio da parte della madre, decisa ormai alla morte. [… ]
Una minuta e sensibile vividezza, quella che nasce dall’attenzione verso tutte le piccole creature che accompagnano la consegna del corpo all’ampiezza del mare, percorre i versi della sesta strofa. Quasi come nel celebre quadro del preraffaellita John Everet Millais, che ritrae il corpo di Ofelia che galleggia tra erbe e corolle, così anche qui il bianco scivolamento avviene “in un gonfiore di germoglio” e le braccia sono consegnate alla corrente mentre un cespo di ginestre è l’ultima cosa viva della terra offerta alla vista “poco prima del niente”.
Ancora una volta torna il lemma “altare”: ed ecco, allora, che il lettore comprende come la fitta simbologia liturgica che colmava la prima strofa fosse preparata per lei, la vittima sacrificale, in nome dell’amore materno. Ed ecco anche che la struttura della silloge si manifesta nella sua compattezza tematica, nella sua ciclicità a spirale, aperta.
Quale sfociare sarà quello della madre se non verso l’altra beatitudine, dopo “l’irragionevole” felicità degli omeri che si protendono al congedo definitivo, ma mostrando, inaspettatamente, “radici”? Può ciò che muore, nel punto stesso del suo finire, generarle? Oh, sì! Esse, infatti, sono da ricercare in quella somiglianza postuma che i vivi possono offrire ai morti come unico tributo alla “colpa” “d’essere vivi” e non poterli risuscitare.
E’ la stessa somiglianza che si fanno come reciproco dono il bambino e la campagna della seconda strofa (non ha sottratto, forse, il bambino santissimo ogni cosa alla morte? ), che si fanno perfino le piante fra loro. Affinché mai nulla “venga perduto”, scrive l’autrice. Per questo ella dichiara nel suo discorso teorico sulla poesia che “il poeta parla direttamente dal mondo dei morti o che i morti parlano per la sua bocca”.
In questa poesia, infatti, Maria Grazia parla della madre morta, al posto di lei: bocca su bocca, bocca da bocca, ella parla “la parola”, come leggiamo in Il duro filamento di Luzi, “all’unisono di vivi / e morti, la vivente comunione / di tempo e eternità.”. Versi amatissimi, questi, di Luzi che riecheggiano nella disposizione e nella qualità delle parole e delle immagini che compongono questo soavissimo “congedo” di dolore e amore, di svuotamento e di pienezza, grazie alle parole che “ci guariscono”, pronunciate amorosamente su quella “soglia” tra vita e morte, tra avere e perdere, verso cui l’autrice sosta sempre “piena d’ospitalità”.
Francesco Palmieri, Un punto di vista: nota critica ad “Atto di vita nascente”, www.lietocolle.info, 2010 – L’universo interiore di ogni individuo è le vedute, il panorama aperto dalle immagini che soggettivamente costruisce, osserva, scruta, gode e soffre; è il tessuto di parole (testo, discorso, monologo dell’anima e nell’anima) con cui dà forma e struttura a sé e al mondo; è il linguaggio nella cui interminabile costruzione e decostruzione si celebra espressivamente, formalmente, la drammatica ricerca umana di un Senso che legittimi l’esperienza consapevole dell’Essere ovvero ciò che chiamiamo vita, esistenza, esserci. E in Maria Grazia Calandrone la “parola” è tutto questo: visione fino alla visionarietà onireggiante, cifra dell’ Io e tracciata dall’Io, interrogazione ora inquieta ora sedata, canto e meditazione, nominazione di un divenire singolare e tuttavia inscritto in una trama plurale di rapporti, relazioni, scambi dialogici fra sé e il mondo prossimo, circostante, storico e metastorico, presente e atemporale.
“Atto di vita nascente” è una raccolta di liriche il cui segno prevalente e distintivo, è proprio la “liricità” nella sua accezione più originaria e classica, ossia poetica del sentimento, ma sincronicamente è anche ricerca spasmodica della “forma”, di una forma pura più che di una purezza della forma. È un po’ come dire, non la parola per la parola (o l’arte per l’arte di primonovecentesca memoria) ma la parola per dire, raccontare, far esplodere un sentimento saturo di vita, perché “L’oro rumina nel profondo/ sbattere d’acqua nelle terre cotte/ dal passo dei morti.” (p. 16), o semplicemente perché la biografia umana è una successione di stagioni e arriva il momento in cui “L’estate opera nei frutti…/ un addensarsi della segretezza delle linfe/ al di fuori del ramo, l’estroversa dolcezza di una pesca/ compiuta.” (p. 44). E questa pesca-raccolta sembra portare con sé il sentimento di un vissuto terminale, la cadenza emozionale di un commiato che non a caso -suppongo- prende forma nella poesia di chiusura del libro: “Congedo dal santuario terrestre”, la cui ultima parola è “congedarsi”, appunto.
Tale interpretazione (ma si tratta né più né meno di un punto di vista fra gli altri) sembra in contraddizione netta e stridente con la direzione semantica di un “atto di vita nascente”, con un testo che sembra voglia certificare il farsi aurorale di una nuova esistenza, ma è proprio in quell’aggettivo verbale, in quel participio presente (nascente) che a mio avviso sta la chiave interpretativa, il punto nodale di soluzione di una poetica fortemente allegorica e, se vogliamo, di un percorso linguisticamente terapeutico (“Conta la solitudine. Rimuoverla/ è la cura di anni…” p. 43), di una confessione definitiva che prelude ad una liberazione, al recupero -nascente- di un Io che si riappropria di se stesso. È proprio in questa montante crescita d’Identità, in questo rendersi, pagina dopo pagina, nuovamente disponibili a sé stessi, che risiede la ragione, il senso della reiterata metafora della partenza, del viaggio; un viaggio che sembra richiedere l’obolo caronteo dello “sradicamento”, uno strappo che ha la necessarietà di un atto dovuto, “un modo […] di vincere la colpa/ di essere oltrefrontiera…” (p. 59).
È la struttura stessa del libro a segnare il percorso, la direzione, le tappe. Si apre con una lirica introduttiva (“sono intatti…”), con una dichiarazione di “fine battaglia”, con una ripresa visiva di “alberi/ e un davanzale di neve”, ma con il sentore di un qualcosa che nasce, nascente: “Cosa rischiuma dalla terra, che geme/ dalla casa sfollata/ dal sole enorme nell’erba/ mortale dove chiara riposa/ la corona regale dei biancospini.” (p.11); e poi, a seguire, quella sezione che definerei una cantica sulla “Bestia”, un’entità vitale e vitalisica dai tratti onomastici spesso dichiarati -ora cerva, ora mula, ora colomba (sebbene in similitudine), ora lupo e uccello, quasi a rappresentare la natura ambigua aereo/terrestre dell’umano- ma a mio avviso meglio tratteggiata nella figura indefinita, germinativa, della “bestia bianca”, dove l’elemento cromatico del bianco sembra essere l’ancora indistinto o l’innocente, o soltanto il bianco della pagina di un “poema” privato ancora da scrivere.
Il corpo centrale del libro, “Primo amore”, sembra segnare il percorso principale del recupero mnestico (quella “pesca” quasi evangelicamente miracolosa), il passo dopo passo dove il motivo erotico appare e scompare come se non fosse il motivo centrale, ma uno fra altri di pari importanza: l’infanzia, il crescere e maturare, la “perdita dell’innocenza”, il sentimento metafisico del sublime mai davvero rimosso, la partenza e il viaggio interiore verso una destinazione non precisata (storicamente, autobiograficamente) ma che ha nella direzione dei rami, l’ “alto”, un senso, e sulla terra “l’amore è una presa dell’anima sul mondo.” (p. 58).
Infine, solo un accenno alle due “sezioni” che chiudono la raccolta: un omaggio a due donne tragiche: Lucia Galante e Katherine Mansfield; due donne accomunate da un differente destino, ugualmente e diversamente drammatico: Lucia, una donna comune, uccisa da una Storia e da una Cultura che oggi definiamo senza mezzi termini oscurantista e claustrofobicamente provinciale; Katherine, una scrittrice ed un’intellettulae, segnata dal dolore a cui mai si è sottratta, dalla malattia e da una morte indubbiamente precoce. Di questa parte del libro “Atto di vita nascente”, voglio limitarmi a due soli e brevi rilievi: il titolo che richiama il fiore della ginestra (o il fiore del deserto, scriveva Leopardi nella lirica omonima), come ad indicare un guizzo di colore vitale (o addirittura proporre degli exempla d’umanità) “prima del nulla”; e in secondo luogo, l’epigrafe di p. 69 che voglio citare per intero:
“L’apprendimento, attraverso la comprensione, porta alla compassione, e quest’ultima appare come la più alta facoltà dell’anima: la sua capacità di avvicinarsi.”.
In conclusione non posso non accennare alle pur presenti difficoltà di lettura, dove leggere non è solo un evento morfosintattico ma soprattutto penetrazione semantica, proprio quell’operazione di comprensione del testo a cui la stessa Maria Grazia Calandrone si appella nella citazione riportata sopra. È innegabile la maestria poematica dell’Autrice, la sua capacità di proporre soluzioni stilistiche di alto livello (le segnalazioni sarebbero una miriade); è innegabile altresì il grado elevato di raffinazione-raffinatezza formale, tuttavia è proprio in tale alto grado di astrazione linguistica, di allegorizzazione del contenuto che sembrano persistere presenti oscurità ermetiche, quasi come espressioni ultime, ultime resistenze di una sorta di pudore del dire, del raccontarsi ulteriore; è come se lo “scialle caduto dalle spalle” (nella chiusa della lirica “La cerva risuona”), non fosse in realtà caduto del tutto ma fosse sempre lì, trattenuto, con la sua trama preziosa, i suoi ricami aerei e terrestri, a celare ancora un poco la “bestia bianchissima riposa”.
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