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Guida Alfonso (2.11)

ALFONSO GUIDA, Tutta la pianta del morire
a cura di Maria Grazia Calandrone
su Poesia n. 257 – febbraio 2011
 

La poesia di Alfonso Guida, che seguiamo da oltre dieci anni, si è aperta come una melagrana nella paglia, una rosa, o qualsiasi altra cosa naturale fitta di grani sanguinosi o petali. Ma con un organo di senso al centro. Adesso Alfonso “vede”. E lo sa. Infatti intitola la sua raccolta Il dono dell’occhio. 

Vedere è un fenomeno inimmaginabile prima della vista. 

Lo scenario di Alfonso detonava all’interno, era una cella di penitenza e amori fermi, portava sui palmi il veleno di una ferocissima nostalgia per il presente, per corpi irraggiungibili sebbene vicini, era un fatto di lacrime e dissipazione. 

Ora Alfonso si è fatto uomo, ha preso il posto del padre. E ha smesso la pena esclusiva per i propri fantasmi, ha liberato l’occhio. 

Tutta questa poesia è stata compiuta nel solo mese di settembre: adesso. 

Ma il mondo visionario è caduto in terra senza alcun fragore, amalgamato ormai alla terra “amidosa”. Stiamo parlando di muscoli che si sono allenati a vedere, della estroflessione di un organo altrimenti abituato a immaginare. E dunque il mondo vero, nella pronuncia oggi chiara di Alfonso, si giova della lunga esperienza della visione. Alfonso ha sempre corrisposto l’ostinato amore della poesia per lui con una vocazione ferma. Lo abbiamo più volte immaginato crocefisso ai suoi endecasillabi e settenari naturali. Incrollabile e costante, diceva io so fare solo questo. Uno stilita curvo sui taccuini. Ancora oggi rifiuta di imparare a usare il computer e costringe i suoi lettori ad affrontare certi suoi quadernetti in verità molto ordinati. Non dico questo per folklore ma perché le cose della sua vita sono gli oggetti poveri e profondi della sua poesia.

La natura, ad esempio, ha nei suoi testi una preponderanza corporale: Alfonso fa nomi di alberi e uccelli che fanno piangere per quanto sono belli, si sente che ha rami e nuvole appena fuori dalla finestra, che ha un cielo leggerissimo sul tetto o le mandrie celesti dell’inverno: il poeta ingaggia un continuo corpo a corpo con gli alberi, le pietre, le averle, il cielo – e le parole cadono come oggetti naturali su questo mondo stratificato: una esattissima civiltà italiana dei paesini limitrofi a Matera, piena di incontri bruschi, spicci, ardenti e insieme il tempo vuotissimo e sospeso dei mistici e ancora, avanti, la lingueggiante desolazione dei reparti psichiatrici, il tremendissimo dolore umano che si poteva evitare. I malati psichiatrici hanno neri tormenti davvero per cose non vere. Quel dolore è uno spreco. Dissipano tempo proprio, tutto il tempo della loro vita è per loro già irraggiungibile. Non possono disporre della vita, sono privati della libertà. Corpi bellissimi dilapidati. Le parole di Alfonso prendono in braccio tutto questo doloroso e incomprensibile non senso, ne imbastiscono la circostanza, un sostanziale ordito. Sono materne. Il poeta ha una nube nella camicia. E trabocca di dediche.

Leggiamo dunque, con la pianta di questa appena consolata perdizione nella mente, la serie “Torremozza”, che indicativamente parte dalla notte per giungere al mattino, una piccola serie di morte antioraria. Per dire la turbolenza della malattia Alfonso si avvicina alle rive dello Jonio, sillabare ossessivo di mare. Certo, Policoro (sede dell’ospedale) è più vicino al mare rispetto a San Mauro Forte, sua terra amataodiata, carcere e tana. Ma l’odore del mare, ma la luce del mare, ma l’aperto del mare. Tutto questo ha di certo a che vedere con il sentimento della perdita e insieme della libertà. Con la paura, con il linguaggio umano che vacilla di fronte a tanta gloria e possibilità. La lingua in riva al mare si confonde sotto il dominio delle visioni. L’acqua forma elementi inafferrabili sulla sua superficie. L’acqua vapora, schizza, si appiattisce. Da questo immaginario boschiano nasce Rosa, la compagna bruciata tra mercati, falangi, sigarette, ischeletrimenti.

Scrivemmo, non molto tempo fa, a proposito di un poemetto dedicato a Inge Müller, alla quale Guida si affratellava con ogni evidenza per disperazione ed esilio: “Quello di Guida è uno stare dentro le macerie del linguaggio e dell’anima, un osservare la catastrofe fino a che si compia un nuovo ordine, fino a che i successivi svelamenti e accensioni si compongano nel consueto “stile”. Quando si rompe il ponte del linguaggio tra noi e gli altri, ecco che siamo orribilmente soli, che ritorniamo nella nostra carne elementare e siamo mere prede commestibili. Ma la lingua ci rende più forti del nostro fragilissimo corpo. […] Il solo ponte sopra le rovine, l’arco altissimo che porta Müller-Guida da una riva all’altra del fiume di sangue è questa liturgia della lingua […] anch’essa nuda e indifesa nel chiedere lo sforzo a noi lettori di prenderla per mano e andarle dietro, nel suo mondo bombardato e sotterraneo e primordiale e illogico, come seguissimo una nuova specie di Alice, una “variazione bellica” della Alice di Carroll.”

Ecco che il tempo che ci voleva è stato e le macerie si sono organizzate nello stile di un rinato. Noi non possiamo smettere di essere felici per questo corpo salvo di poeta che ci darà altra gioia. 

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