Trucillo Luigi (2.12)
LUIGI TRUCILLO, Sguardo e stelle
a cura di Maria Grazia Calandrone
su Poesia n. 268 – febbraio 2012
C’è una forma attiva ed evolutiva dell’umano, qui, che viene dichiarata fin dal titolo. La relazione uomo-cosmo è devoluta e univoca: ci sono le stelle, lassù, affaccendate nei loro moti colossali ma fredde, prive con noi di relazione empatica – e c’è lo sguardo che le indaga, che ci vuole condurre per mano e a piccoli passi verso una abitazione siderale, per quanto buia e fatta di colori che ruotano dove la materia è sottile. Le stelle dànno solamente suono, quel mugghio astrale d’oboe, quella campana assoluta che ci fa regredire all’infanzia perché ad ascoltarla fa maravigliare come bambini. La postura interiore non è più dunque la stessa del Canto notturno del pastore leopardiano: qui non si tratta più di interrogare con strazio retorico una vergine (sterile, immortale, perfetta, non materna: perfettamente sola) luna, della quale già si è provata nei secoli l’efferata mutaggine, si tratta piuttosto di avere intimamente, shakespearianamente – molecolarmente diremmo – a che fare con le stelle. Qui si tratta di lasciarsi insanguinare dal plasma bianco e dal rombo sonoro delle stelle. Plasma, certo, è il nome della bianca materia interstellare ma è anche il nome di una materia che – oh, quanto! – ci riguarda, è il nome del brodo paglierino che regge il nostro sangue. Stelle a bagno nel plasma delle arterie cosmiche o globuli invisibili in sospensione nell’oro pallido del plasma umano. Frutti di remotissime esplosioni. Questo è il cosmo dove veniamo proiettati da chi ha studiato i pennacchi d’acqua di Encelado e il gigantesco cratere di Mimas, da un poeta che presta la sua voce all’astronomo musicista Wilhelm Herschel, scopritore di questi e altri satelliti naturali di Saturno.
La scrittura di Luigi Trucillo è infatti misurata e serissima: egli non intende stupirci con fuochi d’artificio di parole, intende essere esatto e pacato come un astronomo. E per di più un astronomo illuminista, uno che macina anni-luce con lo sguardo chiaro. Eppure. Fin dal primo bellissimo verso è smentito il governo assoluto della ragione in favore di una sapienza immediata che origina dal corpo, messo in trasmissione col mondo e i suoi saperi attraverso il respiro: sai col respiro, così esordisce il detto di Trucillo e, immediatamente dopo, l’atto della conoscenza si manifesta espresso dalla bella evidenza della luce.
Una altezza chiara, dunque – che coincide con una ampiezza buia sebbene rotta da bagliori, infinita e per ciò concepibile a stento – viene guardata senza pròtesi ottiche, con l’ausilio del solo sguardo, il nostro più silenzioso strumento di conoscenza. In questi testi siamo un occhio lasciato nudo di fronte al nero cosmico. Reggiamo tutto il cosmo con lo sguardo. Senza attrezzatura. Senza metalli, lenti, cerchi d’acciaio. Siamo irrisorie creature telescopiche ferme in basso che, con quegli occhi di scimmia nuda puntati alle stelle, immaginano l’inimmaginabile e raggiungono luoghi irraggiungibili. Del buio e delle correnti interne ai corpi, prima che dell’ombra nei budelli privi di batteri del cosmo.
Infatti: dopo il boato concentrico degli anelli saturnali viene l’amore, che ha anch’esso un respiro talmente millimetrico da essere cosmico. I gesti dei corpi in amore sono zoomati e focalizzati alla moviola, portano la lentezza delle stelle e dei fotogrammi macro con i quali esploriamo la natura minuscola degli insetti e dei fili dell’erba assomigliandoli alle rotazioni millenarie dei pianeti e dei soli. Dunque in questo frammento planetario d’amore emergono reperti di un corpo di donna che allunga una mano per toccare una guancia, che compare inattesa e improvvisa a dileguare una solitudine mortale. C’è una luce vastissima su questi corpi, su questi gesti, fino alla enigmaticità erotica dell’ultimo testo, dove i protagonisti dell’amore assumono le sembianze ferine dei lupi che hanno sempre temuto. Così sarà sconfitta la paura, diventando noi stessi la – quanto innocente! – sintesi infantile del male. Dall’anello che gira nello spazio si è risucchiati nel “dettaglio” aneddiano di un dito con l’anello, una icona da fiaba regale che viene offerta in dono a chi adesso è nudo, ma non come il carbone planetario del pianeta della melancholia e della nigredo, Saturno, bensì come l’amata, che si sveste per essere protetta.
La scrittura di Luigi Trucillo è infatti misurata e serissima: egli non intende stupirci con fuochi d’artificio di parole, intende essere esatto e pacato come un astronomo. E per di più un astronomo illuminista, uno che macina anni-luce con lo sguardo chiaro. Eppure. Fin dal primo bellissimo verso è smentito il governo assoluto della ragione in favore di una sapienza immediata che origina dal corpo, messo in trasmissione col mondo e i suoi saperi attraverso il respiro: sai col respiro, così esordisce il detto di Trucillo e, immediatamente dopo, l’atto della conoscenza si manifesta espresso dalla bella evidenza della luce.
Una altezza chiara, dunque – che coincide con una ampiezza buia sebbene rotta da bagliori, infinita e per ciò concepibile a stento – viene guardata senza pròtesi ottiche, con l’ausilio del solo sguardo, il nostro più silenzioso strumento di conoscenza. In questi testi siamo un occhio lasciato nudo di fronte al nero cosmico. Reggiamo tutto il cosmo con lo sguardo. Senza attrezzatura. Senza metalli, lenti, cerchi d’acciaio. Siamo irrisorie creature telescopiche ferme in basso che, con quegli occhi di scimmia nuda puntati alle stelle, immaginano l’inimmaginabile e raggiungono luoghi irraggiungibili. Del buio e delle correnti interne ai corpi, prima che dell’ombra nei budelli privi di batteri del cosmo.
Infatti: dopo il boato concentrico degli anelli saturnali viene l’amore, che ha anch’esso un respiro talmente millimetrico da essere cosmico. I gesti dei corpi in amore sono zoomati e focalizzati alla moviola, portano la lentezza delle stelle e dei fotogrammi macro con i quali esploriamo la natura minuscola degli insetti e dei fili dell’erba assomigliandoli alle rotazioni millenarie dei pianeti e dei soli. Dunque in questo frammento planetario d’amore emergono reperti di un corpo di donna che allunga una mano per toccare una guancia, che compare inattesa e improvvisa a dileguare una solitudine mortale. C’è una luce vastissima su questi corpi, su questi gesti, fino alla enigmaticità erotica dell’ultimo testo, dove i protagonisti dell’amore assumono le sembianze ferine dei lupi che hanno sempre temuto. Così sarà sconfitta la paura, diventando noi stessi la – quanto innocente! – sintesi infantile del male. Dall’anello che gira nello spazio si è risucchiati nel “dettaglio” aneddiano di un dito con l’anello, una icona da fiaba regale che viene offerta in dono a chi adesso è nudo, ma non come il carbone planetario del pianeta della melancholia e della nigredo, Saturno, bensì come l’amata, che si sveste per essere protetta.
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