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Minello Andrea, Del dramma, le figure (Marcos y Marcos, 2010)

 

introduzione a Del dramma, le figure di Andrea Breda Minello
in Quaderno di poesia italiana contemporanea X, Marcos y Marcos, 2010
 

L’AMORE ETERNO NON PUÒ ESSERE PROMESSO PIÙ DI UNA VOLTA

 
Il nostro cuore è davvero povero ma unico e non può essere consegnato più di una volta. Solo questo lo rende prezioso. Altrimenti è un muscolo ritmico ibrido decisamente irrorato e l’amore è il suo compito più teorico e riproducibile. Ci sono cuori consacrati e cuori-proiettore. Questi ultimi dirigono sopra diversi individui (non più visibili per chi li oscura con il loop del proprio cinematografo amoroso) la stessa bouffée immaginifica, lo stesso geyser emotivo – non sentimentale.
Per Andrea Breda Minello bisogna cominciare dalla affermazione di questo status umile e che s’inoltra a oltrepassare se stesso perché Minello è poeta di assoluti. Assoluto è l’amore che mostra per la letteratura e per le figure femminili, nelle persone vere benché scomparse delle autrici alle quali dedica versi carichi di silenzio e immagini – ne parleremo – e assoluto è l’amore che promette, in prima persona singolare o rifacendo il verso di altri come Hafez e Rosselli, per citare gli opposti che Minello vuole fare ruotare nella propria voce.
La silloge qui presentata è l’impronta digitale di un organismo vocale dove la lingua impianta un vero mondo felice sopra radici e fondamenta di dolore che rendono più ramificata e divorante la gioia. Divorante come divora involontariamente chi ha la bocca aperta per la sorpresa – perché la gioia sorprende colui che non l’ha pretesa. E lo stupore, come questo nostro autore lo chiama, è il caratteristico status infantile, dunque il più aperto e fiducioso dell’essere, dunque il più pericoloso.
Certo siamo di fronte a un corpus diviso in due da un lutto perché il lutto sta al centro – e separa un passato da un presente, divide la sinistra sede del cuore dalla destra che sopra gli ironizza. 
Nella sua prima parte la sequenza di testi appare fissata in uno slancio immobile, ha la forma di un arco cristallizzato alla sua massima tensione, quella di un danzatore o di un calciatore fotografato al culmine della sua parabola acrobatica. Ci sono un silenzio grande intorno (versi composti spesso da una sola parola, addirittura maiuscola) e un bianco di pagina-neve dentro i quali s’infilzano in serie (malinconicissima) nude lance pittoriche di Immagini. L’autore assume il carico sentimentale e tutto il vuoto della letteratura, che lo protegge e fa da cassa di risonanza alle sue parole: raramente intraprende a dire senza l’appoggio almeno di una epigrafe o di una dedica ai suoi parenti (intendo letterali legami parentali che egli instaura) letterari. Ma in questo paradosso di carne che è sempre la poesia, la scrittura di Breda Minello non è una scrittura “letteraria” perché per lui e in lui tutto è rivivente. Tanto richiamo azzera la distanza. 
Che vuol dire? Cos’altro vuol dire se non che la poesia è un atteggiamento del suo corpo? – che è per sua natura intensamente antiletterario perché non è “sublime” – che vuole assottigliarsi nella voce. Nel sesto giorno del Creato / S’aprì uno spiraglio / Sul mondo dilapidato giallo: un attacco così ad alta vox denota una padronanza profonda e istintiva della intonazione. Nessuna incertezza, è un proclama chiaro di esistenza. In queste pagine la letteratura non è un espediente retorico ma una necessità come bere, più che mangiare, sono parole iniettate del caldo della materia umana e della indifferenza del Cristo flagellato, poesia che modula la voce dal grido pieno di dolore che sale da un misero mondo mortale al sussurro d’amore che si confida alle foglie del bosco perché forse nemmeno l’oggetto del proprio amore sappia. 
Avanzando nella silloge il tono muta dalla secchissima descrizione – che ha il respiro che sempre ricomincia dal bordo della pagina – alla respirazione circolare della lirica amorosa, a leggerezze da dialoghetto teatrale e a ironiche durezze, perché questo poeta sa usare in poesia anche l’impoetico.
Nelle parole di Minello fanno cortocircuito la Russia delle nevi e delle verste, i deserti destrutturati dall’ira divina della Genesi, la Palestina dell’Impero, il vasto e cristallino e famelico Ouse – e ancora tanto mondo e tanto tempo vagliati dalla parola. Siamo in un universo con le sue mappe le sue chiavi e i suoi simboli. Breda Minello ha letto molto e qui canta (sì, le canta, per quanto voglia dissimulare il canto con le spigolosità del lessico!) le vite delle artiste (Woolf, Bachmann – la prima morta nell’acqua e la seconda per fuoco – Sachs, Goncarova). 
Perché lo ha fatto? Forse che le vite degli altri possono giustificare la nostra o – come dice benissimo egli stesso – discolparla? Forse l’esempio degli altri può farci da battistrada e da salvacondotto? E verso cosa? 
Dopo tanto mondo colato – come cola un setaccio o un colatoio alchemico – attraverso la letteratura, dopo tanti luoghi e tante maschere illustri siamo fermi e carnali e cardinali perché quasi all’osso, abbandonati nel lutto. Siamo nella casa minacciata, siamo nel letto e nei dettagli anatomici di un malato terminale, siamo in un cimitero-luogo rinnegato mentre lo si nomina. Siamo dentro una efferata solitudine raccontata con una grazia estrema ma in una morte senza resurrezione. Resiste la terra e resiste quel merlo sopra il terriccio e il fango che quasi già siamo (com’è ambigua la parola atterriti, descrive forse una morte che ci ha quasi trascinati con sé). 
Certo Minello ha scelto l’ordine della sua silloge, certo ha voluto conficcare nel cuore del suo canto questa assenza definitiva – dalla quale però comincia a parlare in prima persona. Ed è proprio nel mezzo di questa silloge che rivela quel che si può capire dal principio: Come se dietro le coseparole / Ci fosse / Solo silenzio. Lo ripetiamo: coseparole. Equivale a dichiarare ancora, fino ad ora: la mia poesia è il mio corpo.
Ma ora che nel dolore Andrea Minello ha imparato a conoscere se stesso e a nominarsi, la sua prima persona si rafferma e continua attraverso una incessante dedica amorosa dal titolo propriamente religioso. Da Proteggi e consola nel corpo e nella / Mente comincia un vero canzoniere d’amore che finisce per enunciare con esattezza prima di te non esistevo. Sono gesti minimi – ma mai minimali, sono sempre simboli – quelli che vengono raccontati da Breda Minello. La parola ricorrente di questa tematica amorosa è cura, ripetuta come una promessa, una fedele dedica di sé. Cura nel senso di “avere cura” e cura in senso di medicamento: la tua vita è la mia medicina. E i luoghi sono luoghi semplici, i semplici luoghi di una bella gita in compagnia di un tu costante. Ecco che le maglie della struttura si dilatano di nuovo e passano luce aria e mondo perché il primo dono dell’amore, si sa, è quello di trasformare il mondo in un luogo bellissimo da abitare. Ma in caso di benedetta malattia amorosa la bellezza del mondo è resa visibile da un unico essere umano, irradia come un faro dall’amore che l’amato ci concede di offrirgli. L’amore che circola tra noi è la nave che inaugura il nuovo mondo. L’amore cambia il peso delle parole, dei numeri e soprattutto dei nomi. Il nome della persona amata diventa il Nome che si arriva a pronunciare come un mantra che ci libera da noi stessi, come l’asse di un mondo che è nostro ma diventa oggettivo. Avviene sempre. Avviene tanto più per i poeti. L’amore dà la chiaroveggenza e la parola chiara. 
Esistono argomenti trattando i quali è quasi offensivo e certamente inutile, superbo, non essere retorici. La semplicità, quella che in sé contiene tutto il cammino fatto e dimenticato, quella semplicità è la conquista finale di un poeta. Non temere la lirica, la retorica, esibire l’artificio e i bulloni dello scafo che si sta utilizzando per solcare l’oceano insidioso della retorica, specialmente di quella amorosa, nel momento stesso che lo si supera; sovrapporre e comporre le “voci” credo sia il solo modo di usare oggi la retorica, ovvero sommare quanto ci ha preceduti per non ripeterlo “letteralmente”, “letterariamente”. 
Anche qui, è affermato che nessuno può sottrarre le parole a un poeta (e quanto sono semplici queste parole: Ti adoro) , perché le parole sono l’intero suo mondo – non lo costituiscono, lo sono e nulla ha più valore del Nome che adesso portano, impronunciabile quasi, fino – in questo caso – all’elenco gaudioso della bellissima riversificazione di Cveateva. Il tuo nome – è un antico bestiario medievale / Il tuo nome – è una pieve di campagna / Il tuo nome – è una rivelazione […] e così via.
Il Nome dell’Amato contiene ogni mistero e in poesia viene spesso pronunciato attraverso metafore, o esso stesso diviene metafora di misteri, è scandagliato nelle profondità della sua potenza evocativa e associativa, viene annunciato magari con il corpo ma solo in alcuni casi viene incorniciato nei versi (due tra gli eccellentissimi esempi – collegati tra loro – sono la Silvia leopardiana e la leggerissima Anna Picchi madre di Caproni, entrambe evocate ed eternate mentre sono intente in opere di donna). Ma qui mi piace inseguire brevemente alcune innominazioni dell’amato in poesia: penso al veramente immortale Cantico dei cantici, a tutte le perifrasi di Dio e del suo nome, penso a tutti quei generici ed esattissimi io, tu, lui, lei, egli di Cave birds di Ted Hughes, al riassemblaggio dei corpi di amanti senza nome. E Senza nome Andrea Minello intitola il primo testo della sua silloge, riferito alla moglie di Lot impietrata come un monumento salino per avere osato di fissare il suo sguardo sull’opera erasiva di Dio – mentre Dante nella gran luce insostenibile di Dio scoprirà molto avanti nel tempo il suo proprio volto umano. Ma Dante non è l’ignoto documentarista divino che ha stilato il Vecchio Testamento, è un uomo che più volte mette per iscritto di essere un poeta. Entrambi trascrivono la divina leggenda, ma la storia narrata da Dante è più attendibile e vicina perché mette in gioco il suo proprio essere uomo mentre compie lo scarto della poesia che quasi lo disumana.
Ma torniamo ad Andrea Breda Minello – la cui poesia, come è evidente, porta in cammino nell’altra poesia. Decidere di chiudere la prima silloge che si ha la gioia di pubblicare con un verso che dice Amami e con un trattino così smaccatamente cvetaeviano significa essere necessitati da qualcosa che supera la letteratura a stare con tutte le parole e il corpo nella letteratura.
Di certo la poesia ha accompagnato Minello alla soglia del mondo, gli ha fatto da scivolo per un ingresso non comune, perché chi fa il proprio ingresso nel mondo attraverso la porta della letteratura ha l’occasione di ricostruire ogni volta realtà: anche dal lutto, anche dalle macerie e dall’assenza, perché mettendo una parola accanto all’altra con pazienza ed attesa si ricompone il mondo, nominando attraverso l’amore si arriva al cuore della cosa – perché il cuore della cosa e di ogni essere è il suo nome (coseparole, ricordiamolo, contrariamente a quanto dichiarava Serenifreddati nel nome che non è / la cosa ma la imita soltanto) pronunciato attraverso l’amore, che è temporanea assenza di dualismo. E con le parole si sta sotto un cielo che viene irritato dalla prossimità del nostro sguardo ma altrettanto disdegna distruggerci, come sapeva Rilke, attraverso la bellezza tremenda dei suoi angeli. Per fortuna. Ma la porta d’ingresso è anche il punto dal quale si può uscire di nuovo. Dunque ogni poeta chiuda bene la porta alle sue spalle, il sacrificio non è necessario per essere felici: Andrea Minello, “proprio prima di dover partire” – dato l’esaurimento del suo spazio – si congeda così, senza cerimonie. 
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