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Leone Letizia (9.10)

  • Letizia Leone, Strigiarum Synagoga
  • Poesia” settembre 2010

Preziosa. La poesia di Letizia Leone è: preziosa, per la cura attentissima al linguaggio (che non è mai scontata, nemmeno quando si “fa” poesia) e per le ricerche storiche che l’autrice ha intrapreso su un argomento intorno al quale è sempre prezioso apprendere.

Otto milioni di donne mandate al rogo dall’Inquisizione, secondo Elémire Zolla, adesso parliamo di questo: un olocausto incessante e sommerso di ragazze e ragazzine che avevano la colpa di essere troppo belle o troppo intelligenti, dominanti, curiose e libere e dunque di turbare i pensieri o sovvertire le classi che, come sappiamo, si formano nei pre-giudizi prima che nella loro declinazione sociale. Quelle belle donne si piacevano – a buon diritto – magari un bel po’, raccoglievano erbette micidiali, volevano magari profumare un corpo nel quale si trovavano a pieno agio – o volevano curarsi – o curare – o, anche, rimettersi a fuoco nei riguardi divenuti evasivi di un amante. Ne sappiamo poco e con fatica: gli archivi del Vaticano sono ridotti all’osso.

Dunque buona a sapersi ogni notizia, desunta dalle rare trascrizioni dei processi. Il resoconto in versi di Letizia Leone è gotico e politico: comincia da una immersione nella felice naturalità delle cose: non c’è peccato nell’amare l’erba / le chiacchiere attorcigliate della natura / le tenere catene degli steli. Ma ecco che la natura tutta anima e panica viene sottomessa agli incendi. La Chiesa ha sostituito al rigoglio gioioso delle foreste il legno di dolore della croce, che gronda sangue, penitenza e pena, ha fatto esalare alla natura la sua pericolosa sacralità, la sua perturbante sessualità – e altrettanto alle donne, trafitte con spilloni per frugare loro il diavolo in corpo. E dove “lei” non sente dolore, in quel punto del corpo c’è Satana, qui è stato allacciato il patto infero.

Come la dice lunga, tutto questo: dove non c’è dolore, ecco il male. Perché il bene, questo bene concesso sulla terra terrestre, è pulirsi secondo amarezza, espiare la gioia della carne, trascinare la carne di feccia in feccia per mondarla punendo. Come altrimenti controllare la furia naturale delle donne, il loro avere questa confidenza viscerale con la vita che è il lusso di sorridere della morte? Come tenere fermo il carnevale, il sabba, come spegnere l’ardimento degli altari pagani?

Ma rendere esanime la natura, farne mercato prima religioso e poi mondano è la prima soglia del capitalismo. Così Leone richiama a sé le urla delle donne nelle celle di tortura, che battezza vomitori – e dentro queste urla sente ancora le grida della gioia, la libertà di Dioniso, il canto delle donne vicine al canto del grano, ché altri chiamano messa rovesciata / il nostro casto canto oltre l’umano / con le cose vive dell’aria – e usa le parole della scrittrice olandese morta ad Auschwitz, perché forse ha pudore di prendere parola in prima persona a nome di tutto quel dolore e allora scrive, con l’aiuto di Etty Hillesum: comincio / ad assorbire una piccola parte / del gran dolore che dev’essere assorbito / su tutta la terra.

Ecco come le donne faticano a comprendere la normalità del male e hanno bisogno di darsi questo genere sublimato di spiegazione, assumono il male che avviene loro come un compito clamoroso da assolvere, tanto che Hannah Arendt dovette scrivere un intero libro, appunto La banalità del male, per dar conto a se stessa e alla storia del fatto che Eichmann, il gerarca nazista, fosse un uomo comune: né psicopatico né particolarmente maligno.

Tutta la psichiatria contemporanea, specie nelle disamine processuali, si basa su questo assunto, riportato in diretta da una donna che lo scopriva, scioccata, in un processo del 1961. È a tutt’oggi istruttivo constatare come Arendt individuasse nel pensiero la possibilità di rifiutare il male e si facesse spalleggiare, nel sostenerlo, addirittura dal maestro Socrate. Socrate sapeva – e lo dimostrò fin dentro la morte – che è impossibile venire condizionati dal potere quando si sia capaci di formulare giudizi personali profondi. Perché il male è acqua di superficie: dilaga ma non zampilla dal di dentro. Di dentro abbiamo solo sangue e gioia. Di fronte alla persona Eichmann – e non più al mero esito criminale della persona nei fatti – Arendt comprese come nella creatura “maligna” ci sia solo una triste incapacità di pensare, il vuoto della coscienza – e la inettitudine a riconoscersi nel dolore dell’altro, come mette in poesia a distanza di anni Franco Buffoni in Guerra, analizzando l’odio “intelligente” dei Sapiens-sapiens. Buffoni richiama il concetto di “pseudospeciazione” elaborato da Konrad Lorenz e passato attraverso le parole di Danilo Mainardi: L’analisi etologica del nostro comportamento spiega che, nei più crudeli conflitti umani, i singoli gruppi si comportano verso gli estranei come se questi appartenessero a una specie diversa. Come se i nemici non fossero umani. Nei campi di sterminio le migliaia di persone quotidianamente uccise venivano definite “pezzi”. E i giapponesi durante la guerra in Cina chiamavano i cinesi “tronchi”, “legname”. Se io rifiuto la premessa – diremmo se rimuovo l’evidenza – che tu sia uguale a me, io non vengo raggiunto nemmeno dall’eco del tuo dolore, le tue grida mi risultano incomprensibili, in-compatibili. E certo gli inquisitori dovevano com-patire ben poco il dolore che davano!

Spingiamoci dunque a dire che la compassione sia una doverosa scelta quotidiana.

Ma cosa resta sotto le nostre case di tutto quel gran giogo sanguinario imposto alla scorrevolezza della vita? I cadaveri grigi e sommersi delle donne, il loro grido muto “Non sono più felice”: questa la “fondamenta incurabile” della nostra civiltà, lo spegnimento dei boschi col fuoco, la distillazione chirurgica della energia femminile primigenia. Ha prevalso il mercato, l’opificio, alla donna è stato consegnato il perimetro inoffensivo (forse!) dell’economia domestica e il sognare di evaderlo. La forza si è voluta spenta e soppressa – e a quale prezzo: la descrizione delle torture è agghiacciante: mattoni roventi, mutilazioni, pentoloni dove si venne messe a bollire, tagli tra naso e bocca per lasciarle affogare nel proprio sangue, stupri violenti, perforazione della lingua. Si rimane allibiti come Arendt.

Specialmente in questi passaggi anatomopatologici notiamo la familiarità di Letizia Leone con lo splendido atrocissimo commovente Gottfried Benn di Morgue, che mostrò – anche lui con quanta com-passione! – lavanità dei corpi. I poeti arrivano a identificarsi finanche con la specie dei morti.

E dunque la strega-Leone si conclude quasi pronunciando l’invocazione al diavolo della Baba Jaga, la mitologica magara russa raccontata per dare un volto alle innevate paure infantili: la pronuncia da questo mondo spento in penitenze e lifting dove non ci sono più assemblee (Synagogae) di streghe (strigiarum).

Da questa piccola scelta di poesie proviene insomma l’incoercibile pulsione femminile e sessuale della natura e il grido di rivolta della riproduzione e della gioia, il richiamo immortale della vita stessa.

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