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Gusmeroli Giacomo (10.10)

GIACOMO GUSMEROLI, Infusioni
a cura di Maria Grazia Calandrone
su Poesia n. 253 – ottobre 2010
 
Non c’è trucco né inganno: Gusmeroli, a vederlo, è la sua poesia. Le sue parole sono manifestazioni della materia, proprio di quella che il poeta abita e che racconta – ma che, a ben vedere, trasfigura, va liquefacendo al calore del suo sguardo, di quella “guardata” non individuale che un generoso imprinting sentimentale gli ha regalato. Lo vedremo. 
Le cose e le parole comuni della terra qui diventano voci del verbo poetare. Prendiamo come primo esempio l’ultimo testo, il racconto della stesura di un affresco. Gusmeroli racconta di aver fatto parte di una compagnia internazionale di artisti – dice, con una certa manifesta ironia – discepoli dei maestri Drobot e chiamati ad affrescare una chiesa greca. Sono cosacchi, estoni, giapponesi, greci, italiani e francesi, tutti raccolti nel villaggio corso di Cargèse e accomunati da un apprendistato d’arte bizantina. Ma con che gusto Gusmeroli ci comunica – e con quanta attenzione – uno per uno i nomi degli elementi e dei dettagli che preparano e impastano l’opera.
Viene subito in mente l’atletico Pasolini-allievo-di-Giotto arrampicato sull’impalcatura nel Decameron. Come in Gusmeroli anche in Pasolini l’affrescatura della parete viene descritta in tutte le sue fasi successive: dal bozzetto alla preparazione del muro, alle tracce a stecca di carbone, all’amalgama e alla stesura dei colori. E accostiamo la ManganoMaria della visione di Pasolini a i rossi regali, gli ori – le aureole dei bambini – e il viola di Marte nel manto di Gusmeroli. Una similitudine che rasserena, perché abbiamo bisogno di simili. E di testimoni: con Pasolini, Gusmeroli fa un uso letterario del dialetto, pasticcia saggiamente l’italiano e piazza chiara e semplice la lingua delle sue parti qua e là dentro l’opera come le macchie di sole nell’ombra degli alberi.
Viene allora anche in mente il Pasolini-Chaucer che si scontra con l’Oste neiCanterbury Tales, film che inizia con “Nennella che dorme nelle braccia della morte”, come mal si traduce nei sottotitoli inglesi Fenesta ca lucive, canzone popolare napoletana scandita dall’Indulgenziere. La creatura dal bel corpo pulsante che alla fine di tutto dorme nella velenosa o indifferente compagnia dei morti è il filo conduttore del film e del cinema di Pasolini, che riassumiamo qui barbaramente come un gioioso, amaro e dettagliato trattato sull’umana miseria, condotto con una mescolanza intensissima di commozione e rabbia. Pasolini rifiutava il naturale. Egli era un giudice senza tavola della legge altra che la bellezza della vita, che la sua nudità, estrema e completa. Eppure nei suoi film la finzione, la sovrapposizione dell’arte alla vita, è evidentissima. Ma il risultato che egli ottiene è avvicinarci inesorabilmente. Noi, noi in prima persona che guardiamo veniamo avvicinati dal suo sguardo.
E lo stesso diciamo di Gusmeroli: in tutta questa sovra abbondanza di brume, nevi, vino, vigne e zolle – che si spaccano – e lombrichi che pure sono VITA che mai si vuol ferire, folgori che scandagliano le torri ed erba, “vola alta parola” (Luzi). 
Nel dire in prima persona di Gusmeroli c’è la stessa nudità esposta della allegra sessualità pasoliniana e c’è la stessa consapevolezza – non più amara – di non essere natura. A Gusmeroli non importa niente di sé, importa della comunità umana: egli usa della sua biografia per manifestare una nudità collettiva, la miseria e lo splendore della creatura umana.
Il Decameron di Pasolini si chiude con il trasloco delle impalcature, lo scampanio e la bicchierata della festa per l’opera conclusa e la voce del maestro di spalle che dice “Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?”. La silloge di Gusmeroli si chiude con la piccola diaspora del gruppo chiamato con quel nome altisonante che fa sorridere. Un piccolo rimpianto rovesciato in un guizzo di autoironia, nel commento a margine dell’autore sulla propria opera.
Ma ancora: una delle poesie qui riportate, Fotografia, è letteralmente la descrizione di una foto che vede il poeta ragazzino di sette anni con i suoi: quattro bambini e due adulti (i genitori) con facce come / un oscillìo d’una nell’altra, non si può pensare / l’una senza l’altra: ecco l’imprinting. Non sappiamo quale sia Giacomo dei tre maschietti, non gli è parso importante dirlo. Certo notiamo la femminuccia, scalza e con le braccia incrociate, messa fieramente a sedere sulle gambe di un padre felice. C’è fra i sei corpi una confidenza scarna, essenziale e profondissima. Vediamo in tutta la composizione uno scorrevole buon senso della vita: quattro bambini sorridenti, a piedi nudi o con gli stivaloni di gomma e un paio di zoccoli cariati e abbandonati, cose che sembrano tanto vicine a farsi terra. Sono bambini presi contro un muro nudo. 
Sembra che i tre maschietti siano un piccolo grumo di vita a malapena frenata per il breve spazio di una foto, sembra che stiano per partire a rincorrersi dentro il folto degli alberi. Non ci sarebbe peccato se li vedessimo tirare di fionda alle rondini. Ma uno fra i presenti di allora morirà precocemente e un altro si metterà a scrivere versi: questi.
L’unica che non guarda in macchina è la madre: lei guarda il marito e qualcosa gli dice che lo fa sorridere. Perché è d’altro che ci piace parlare quando parliamo di poesia, se la poesia è una porta, piccola piccola, che ci fa addormentare (in piedi) nel brusìo di un mercato, in una larga piazza pasoliniana, “entro il dolce rumore della vita” (Penna), nel bel suono di altri equivalenti a noi. 

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