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Bergamasco Sonia (11.10)

SONIA BERGAMASCO, Pesciolino
a cura di Maria Grazia Calandrone
su Poesia n. 254 – novembre 2010
 
Il suo calore è tutto concentrato a brillare nel silenzio – e in quella pozza di chiarore lunare che sono le dediche a coloro che chiama per nome: Maria, Valeria, carne della mia carne. 
Ma lei – Sonia – lo dice meglio: anima – dell’anima – mia.
Una bianca e lentissima abdicazione. 
Di fronte al cuore bianco dei bambini il mondo – si capisce – è una inesplorata facezia, una regione astratta, cosa non raggiungibile e non interessante per la portata delle nostre braccia, tutte adoperate nel raccoglimento del piccolo corpo, che incarna la regione smarrita. Ogni abbandono viene risanato dallo spettacolo di tanto abbandono.
Ma infine bisogna pur lasciare che quel bianco, come la nostra originaria trasparenza, si contamini. E l’aderenza della madre pure prepara il primo fra i distacchi, pure si piega a una desistenza.
Cioè: fa spazio.
In quel momento veniamo investiti dalla luce leggera di Sonia Bergamasco, come dal soffio di una sottrazione.
La leggerezza è la caratteristica di tutta la sua persona: la leggerezza, il bianco, la trasparenza – diremmo quasi una propensione alla invisibilità, paradossale in una donna che per mestiere si mette in scena con tutto il corpo.
Eppure: la sua poesia è inclinata verso la scomparsa, si piega come la testa trasparente di un corpo tutto bianco – come l’apice di una colonna trasversale, che attraversa molti arti: musica, cinema, teatro, televisione. 
Bisogna fare i conti con l’evidenza: Sonia è donna abituata a portare in scena il fatto del corpo insieme alla sua voce umana, spesso sola – in melologhi, monologhi. La struttura sonora che la sostiene, il suo scheletro scenico è la musica, che lei ben conosce in quanto a sua volta musicista. Abbiamo scritto scheletro, non maschera. Perché Sonia Bergamasco sulla scena si muove in maniera poetica, se per poesia s’intende il tangere a piene mani l’assenza, l’avvicinarsi per approssimazione e con sfrontata paura al segreto nel cuore umano, forse allo scarno sentimento del male, alla morte povera quasi invocata nelle poesie poste in inizio e in fine – dove si muovono un io tentacolare e vischioso come una colpa e un dolore al quale io risponde immaginando, inventando sull’orlo del pianto ancora un condizionale dialogante, intimo, domestico: “avvolgerei, imbandirei”…
Perché il sentimento è misurato, s’intende, e a sua volta misura una singola umanità ben cosciente di essere un frammento del mondo: Bergamasco non si pone affatto il problema di nominare il mondo con le proprie parole, parte bensì da scarti già compiuti e parla dall’interno di una specie di nuovo espressionismo. O una generazione, perché in effetti non ci sono antecedenti di questa poesia, forse proprio perché restituisce insieme alle parole le leggi della musica e del movimento. Una forma formata da forme non stagne e non stagnanti, ma che anzi somigliano al suo modo di stare sulla scena: estrema ed essenziale, versatile come si versa l’acqua e cambia nelle grandezze superficiali ma è sempre l’acqua che ci è stata offerta insieme alla sete, sempre la nostra. Così, come una creatura rinascimentale, Sonia ci appare punta da un desiderio di perfezione e dalla continua necessità del confinamento di essa perfezione nello scenario umano delle ossa e dei sogni opachi della materia, convertita a celebrare ogni volta il battesimo dei suoi frammenti.
Anche il suo Dio è rinascimentale e immanente, se Sonia lo rinviene nel corpo infantile abbandonato al sonno – ma per il tramite della citazione luziana arriviamo a mettere davanti al viaggio poetico di Sonia il faro di Cristina Campo, suo approdo elettivo, se in entrambe il calore, i bagliori e le figurazioni anche bestiali si estraggono dalla mutaggine della materia. Come Cristina Campo anche Sonia Bergamasco rifugge il lirismo, ha la pronuncia secca e antiretorica, innevata da una distanza imposta per pudore, da un fervore taciuto, da un dolore che atteggia la faccia in ironia e in pronunce di brusca leggerezza. 
È come quando la poesia si mescola alla prosa, ai video, alla fotografia – e fa scattare gli S.O.S. e i salvataggi editoriali in apposite collane di contenimento: Sonia è una personalità “fuori formato”, ma la poesia sembra essere in lei quanto di più vicino alla sua propria evanescenza, come se le parole fossero la sua parte sottile, la testa in fiamme del cerino, quello che è evaporato dopo il fuoco che ha sciolto la cera del corpo – la neve – ed è rimasto solo cuore che spinge sangue, dedica – e addio. 

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