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Caccamo Michele (12.10)

MICHELE CACCAMO, Pertanto accuso
a cura di Maria Grazia Calandrone
su Poesia n. 255 – dicembre 2010
 
Le diremmo poesie della bestemmia santa, poesie dell’agonia di Dio, versi che dicono il momento tremendo nel quale i tendini del collo di Cristo cedono e la testa di chi doveva salvarci si piega dalla croce a una terra abbandonata. 
E c’è solo la madre, una madre finale, a sostenere tutta quella morte. 
Poi, va via anche la madre ed è il pericolo della vera morte.
Non è mai facile trovare la luminosa via maestra, il blasone smagliante del futuro in quel desertico silenzio di corpo umano che termina da millenni sotto gli occhi di tutti.
Le diremmo preghiere prossime alla blasfemia – ma in bocca a chi ha avuto deluso un sorriso radioso, del quale sentiamo ancora l’ingenuità bianca tra le parole come il riflesso muscolare di una luce lontana, come se quel raggiare primitivo di gioia fosse stato delegato, da una creatura ferita, a una seconda persona: femminile e inguainata in quella stessa luce come la spada nel fodero – fodero che la rende meno aspra e aspramente guizzante (perché il bello, si sa, ce lo ha svelato Rilke tanto tempo fa, non è che il tremendo al suo inizio) – ma intangibile.
Così lontano è Dio e lontana è la donna angelicata, lontano è il tramite della bellezza amorosa che a Dio ricondurrebbe, nel noto gioco dei rispecchiamenti e dei più scaltri mezzi di trasporto, quelli spirituali.
Poesie asciutte, dure e petrose quelle di Michele Caccamo, che trascorrono dall’essere armate e irte in tutto il lessico a una rinuncia mortale dove si stadisattivati come giacenze.
L’io lirico di Caccamo è un brancolare, uno stare a tentoni tra terra e cielo, le sue sembrano parole salite dal fango, brevi frasi venute da una creatura priva di arti, di quegli arti santissimi, delle guglie improvvise di senso che dà l’amore. Ma, nonostante la fine del mondo conosciuto, questo strano pesce di terra ogni tanto rimesta la terra con dei guizzi verso l’alto, si sente che spera che l’alto sia rimasto cielo, che abbia almeno colore di cielo e sia abitato, come nelle visioni di quando si era bambini.
La controfigura della crocefissione è uno dei temi portanti di questa silloge, la proposta di un corpo umano eretto da un supporto che lo finisce. E il simbolo costante di una croce porta la silloge come portava due millenni fa i corpi dei ladri insieme al corpo di Dio: le parole spargono il sangue di chi le scrive sotto il suo stesso crudo osservatorio. Questo che muore sotto i nostri occhi non ha pietà per se stesso, ma una unica, quasi incosciente, amorosa promessa di futuro: ti aspetterò.
Abbiamo immaginato con libertà, perché quella di Caccamo è una poesia che lascia immaginare, lascia profondamente dire al suo silenzio nella mente di chi le sta dietro – abbiamo immaginato il dibattersi in terra di una creatura marina o dell’aria – l’alieno, il circonauta (cos’è? ma si capisce…) – l’agonia quasi muta di un grande pesce primordiale. Abbiamo immaginato una creatura elementare nel corpo ma in uno stadio passionale umano e che nel chiuso di una tana sottomarina abbia lungamente, abbia nei secoli evolutivi coltivato ambizioni divine e dunque ora, così esposto alla crudeltà del cielo e impedito a muoversi, urli a brani la propria dolorosissima rabbia o altrimenti preghi una specie di idolo, una croce, sapendo che è di legno, di quel legno che abbiamo visto sorreggere una grottesca apertura alare dei corpi.
Ma possiamo ancora immaginare che questa accusa, ferma e continua e incessante, che questa intelligente idolatria, abbia gettato nel buio le fondamenta del suo Dio, nel necessario silenzio della più estrema delle solitudini, proprio lì dove butta parole da millenni la piaga di Cristo, la più incondizionata delle assenze, il simbolo più fecondo della scomparsa per amore di tutti: Io me ne vado perché tu sia per sempre, vado nella più estrema delle assenze, vado lì dove tutto è scomparsa: non toccarmi, non sono questa cenere, io sarò dove nasce la poesia. 

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