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Raveggi Alessandro (3.10)

ALESSANDRO RAVEGGI, Huitzilopochtli
a cura di Maria Grazia Calandrone
su Poesia n. 247 – marzo 2010
 
Cosa succede a un giovane poeta di Firenze traslocato agli antipodi, ovvero a Ciudad de México? Succede che il ragazzo si interessi alla storia locale e ne risalga la corrente fino alla pregressa mitologia azteca. 
Come sappiamo in taluni casi fortunati le esperienze personali e la ricerca poetica si saldano e solidarizzano e la scrittura assume i contenuti della scoperta. In questo caso avviene che nella poesia italiana si parli per la prima volta (ma sono pronta a essere smentita!) di divinità azteche e di conquistadores. Il villaggio è globale.
E quale divinità sceglie per cominciare a raccontare i suoi progressi di curioso apprendista il giovane poeta fiorentino? Naturalmente la più terrificante e potente, il feto vendicatore della madre uccisa perché importunamente gravida di lui, il tremendo non-nato sterminatore della sua famiglia e che scaglia nel cielo la testa dell’assassina perché mamma stia in pace sotto quella testa-luna agghiacciante, il dio piccolo come un colibrì che lotta dentro ognuna delle notti contro la luna nemica perché il sole risorga, il minuto e feroce Cristo azteco concepito senza che carne abbia toccato carne e al quale vengono sacrificati i prigionieri. 
E quale storia più violenta ed esemplare di quella del massacro azteco da parte di Cortés e dei suoi sgherri?
Dati i temi che il luogo di residenza gli mette a disposizione ci aspetteremmo da Raveggi i toni di una tragedia archetipica, spargimenti surreali o cinquecenteschi di fluidi corporali, una poesia vestita d’atre tenebre di sangue (Alfieri) come la notte dell’Oreste. 
Ma Raveggi è appunto un toscanaccio e viene da una stirpe nota per l’ironia – che egli stesso ha già espresso nel volumetto acido dal titolo piuttosto manifestante di Disney contro le Metafisiche, dove in allegate tracce audio egli autore scandisce sincopato e stentoreo i suoi frammenti avvelenati. 
Gli aztechi erano invece gente abbastanza ingenua e chissà quanto musicale. 
Eccoci allora davanti a un paradossale cortocircuito tra il discanto italiano di anni così postpostmoderni da essere preistorici ed esangui e uno scenario arcaico, massivo, feroce e politeista. Ed ecco che si entra con gli occhi bruschi e quasi gioviali del poeta nel tema sanguinoso della grande migrazione della tribù dei Mexica da Aztlán al Messico, e della fondazione di una civiltà molto terrestre e molto superstiziosa e della rifondazione strutturale di un’altra civiltà nelle stesse righe di limo, di una efferata colonizzazione anche spirituale. 
Questa esperienza in fieri di Raveggi ci è utile per una breve riflessione intorno alla poesia, perché la sua non è semplicemente poesia di viaggio (ne avremmo molti esempi) né poesia dell’esilio (altrettanti): si tratta bensì della poesia che si sviluppa in una residenza elettiva. 
Abbiamo così le prove che questo certo genere di poeta interpreta il mondo secondo il proprio mondo, assume nel suo stile la sorte che lo ospita. Infatti, la psicologia sociale della Firenze contemporanea e la storia di Città del Messico non hanno nient’altro in comune se non la lingua di Raveggi.
Non è così per tutti: ci sono poeti che vengono influenzati (reversibilmente, s’intende, o per stratificazioni) da ogni evento vissuto, quasi da ogni lettura: sono poeti-spugna. Raveggi sembra essere invece un imperturbato poeta-diamante, uno di quelli che siglano il mondo con la propria firma. 
Questa cosa che Raveggi possiede si chiama stile.
La sua scrittura parte da subito come scrittura metaforica: l’azzurra nocca del mondo, scrive, per intendere il mare. Siamo di fronte a un poeta che prende fiato pensando i movimenti di massa di un manipolo armato: si tratta di estranei venuti a spossessare un popolo della sua terra promessa e a imporre lingua e religione aliene sulla prima conquista, meramente geografica. Sul mare azzurro e nodoso si avverte il movimento fisico di un gruppetto arrogante, al quale viene spianata la strada dalla superstizione degli abitanti, che scambiarono i nemici per emissari divini. Gli spagnoli dovettero solo troncare qua e là qualche pianta per raggiungere l’interno del trauma equatoriale, dove avrebbero stroncato probabilmente col medesimo gesto creature ben più evolute delle agavi.
Leggiamo poco più avanti a proposito del numero mistico di Dio: scorgi i mostri bicefali orrendi / della sua verità sulla Terra. Stiamo leggendo della colonizzazione delle anime, della riconversione degli dèi nel Dio. Ecco che infatti le croci vengono erette in terra straniera e sono croci al neon e i cavalli, sconosciuti anch’essi come divinità, sono monumentali e proverbiali e malamente gloriosi.
Chi saranno allora gli animali trasfigurati in bestie? Questi cavalli, inferi portatori del Grande Avversario, o gli animali divini degli Aztechi divenuti bestie dopo che sono passati per gli occhi dei conquistatori che hanno imposto la croce del sangue, un nuovo sangue “crociato” sullo già sparso sangue sacrificale?
Ma attenzione: non occorre compiere le summenzionate e pur sommarie ricognizioni storiche né consolidarsi in certezze esegetiche per intendere i testi di Raveggi: sono oggetti che stanno su da soli anche in forma di musica e linguaggio perché sono semplicemente “belli”: al di là del significato, La trasfigurazione degli animali in bestie è – a immediato esempio – un bel titolo, pulito e convincente.
In certi casi, come dicevamo, la poesia è una seria e profonda questione di stile. 

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