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Madeccia Bianca (2.10)

BIANCA MADECCIA, Variazioni sul buio
a cura di Maria Grazia Calandrone
su Poesia n. 246 – febbraio 2010
 
Bianca Madeccia entra a gamba tesa nella poesia, butta all’aria le zolle d’erba lirica della versificazione “femminile” così come alle volte è ancora malintesa e la lirica viene rimpiazzata egregiamente dalla passione e dalla strenuità: la sua è una scrittura frontale che occupa la nudità dei fatti dove si accampano microbi divoratori, è un lavoro antagonistico di affermazione collettiva di una specie insonne, colpevole e veggente ma soprattutto affamata.
Madeccia ha la poesia bellica, campale fino alla franca invettiva (che quanto malinconicamente si rovescia nell’ultima parola!): è alle soglie, in un dire liminare – ma non preliminare, infatti è già nel limite, capofitta nel cuore quasi muto oramai della creatura.
Colpisce. Colpisce alla lettera, la forza di questa poesia del margine e dell’assenza, tocca la descrizione della fame come asse di una similitudine – ma siamo fatti simili anche dalla gratitudine per questa lingua a parte, che è un nostro potere umano e concreto, la nostra forma di azione, la poiesi e la prassi di chi perlustra il mondo traendone invocazioni come reperti fossili a una sorta di antiMaria dei vetri, del legno, di un ferro che non ci tagli il canto nella gola e anzi ci aiuti a sollevare in parola questa miseria secolare. 
Scrive Martin Rueff che il poeta, creatura che per propria natura (natura, sì, perché un poeta dopo una certa sua stagione all’inferno può essere identificato quasi completamente con la propria lingua) parrebbe un inoffensivo scrivano, è invece sempre in guerra e con i nervi scossi. Da molta poesia sale infatti la stessa intelligente benedizione: sia benedetta questa pace apparente, questa tregua, questa sosta nel male di vivere – ma non chiudere gli occhi mai del tutto – o, se li chiudi, chiudili dopo averli rivolti verso l’alto, perché il più grande tra i doveri del poeta è quello di annunciare l’arrivo delle catastrofi, è quello di vegliare: il poeta ricorda e ricorda per tutti il mondo prima della separazione. E dunque la sua guerra è Resistenza. Attiva: è denuncia.
Anche in Bianca Madeccia non è solo della clamorosa rovina della guerra maggiore (sebbene non manchino gli accenni alla Terra Santa, agli stupri e all’oro nero) che si tratta, ma assistiamo a una lotta ingaggiata contro il quotidiano ciarpame che intralcia il bene morale: Madeccia denuncia la rovina contemporanea e il suo è un canto geologico, prende voce per tutta la terra, dice a nome dei sismi e dei vulcani – che sotto hanno voragini, tempeste, movimenti segreti e sussultori – rivolta. La cantica è tellurica e sovversiva, dove cede alle stelle è per meditare un delitto. Ma di quale natura? Solo – crediamo – l’uccisione delle rappresentazioni, dell’oppio delle forme per arrivare al vivo. E allora il poeta torni a essere il vulcano che sommuove la profondità della parola terra presa da un fuoco dove le parole saranno cose.
L’aspirazione è a un ordine pacifico del mondo, la poetessa chiama a raccolta forze primarie, invoca uomini e donne prestorici in un paesaggio basico e radiante. Si immagina una profezia mai pronunciata o pronunciata sotto forma di remota catastrofe finale che racconta come già sia avvenuta la scomparsa della parola e la caduta degli uomini in una mutaggine nera che significa il dileguarsi del lume della ragione e la resa del genere umano a una ferinità mccarthyana (La strada) se non addirittura alla famelica morte mathesoniana (Io sono leggenda): ovunque mi volti vedo morti che camminano e gli uomini, inginocchiati e naufraghi, hanno ali che si oppongono al cielo. Ma torna anche alla mente la splendida Cassandra di Christa Wolf, che tra le dissidenti dello Scamandro riunite nella casa del saggio Anchise, capisce che tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere.
Ci sono infatti una desolazione da fine del mondo e insieme un pathos da tragedia greca in queste poesie, a cominciare dalla forma interlocutoria e quasi orale che praticano. Sono parole assunte nel dolore per scomunicare – ed ecco le brecce, le frecce e i bombardamenti della lingua – ma anche la scomunica è scagliata nella forma lampante della comunicazione. 
Bianca Madeccia vuole dire: gira alle spalle lo sguardo, adesso che tutto sembra essere già successo, fissa con un dolore ribelle la storia (individuale o collettiva, l’automatismo del male è lo stesso) fino al punto nel quale si poteva ancora scegliere di non formarsi nella mente un nemico, così da non rendere inevitabile conseguenza questo feroce, questo banale e sciatto metter mano alle armi. 

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