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Pietrini Daniele (1.10)

DANIELE PIETRINI, Zalongo
a cura di Maria Grazia Calandrone
su Poesia n. 245 – gennaio 2010

Ci succede – ogni tanto – di incontrare poesie fisicamente insopportabili come queste, poesie che fanno smettere di respirare perché hanno la facoltà di immergerci in un lago di senso che sovverte le leggi di natura. La storia delle 57 donne del villaggio greco di Souli che, unite tra loro per le mani e ai loro bambini in un gravissimo girotondo, si gettarono danzando – a una a una a ogni giro del cerchio, sempre più stretto fino alla intatta solitudine dei morti – dal monte Zalongos per non venire umiliate nell’anima e nel corpo dai soldati turchi di Ali Pascià è di per sé corpo poetico, materia già di musiche e pitture e danze popolari. 
Cosa dovettero vedere i soldati che le osservavano gettare nel vuoto i propri figli e gettare se stesse dietro i corpi che avevano partorito? Cosa impedì a quegli uomini di arrestare quel lunghissimo parto rovesciato? Perché non intervennero a fermarle, loro che erano certo più robusti e maggiori di numero e soprattutto armati? Cosa rese intangibili quelle donne di fronte alla soldataglia che già ne aveva massacrati gli uomini? Perché non le gettarono a terra per abusarle come era uso mentre si sbattezzavano con il sangue dei figli e li guardarono invece morire tutti, una per uno, con determinazione e con lentezza? Perché privarono se stessi del piacere di uccidere il nemico? Forse lo sguardo di un poeta di 200 anni più tardo che ancora guarda nell’ordine innaturale di quei corpi, fermi e danzanti, intuisce quale senso li allaccia ma li slega: 
Pietrini immagina un unico grande corpo femminile singolare e indemoniato e sovraumano al punto da arrivare a pronunciare anche il carnefice è orma dell’amore. Quei soldati videro un unico corpo già trasumanato che esprimeva soltanto il suo noli me tangere. La Zalongo di Pietrini non è insidiata da tristezza o terrore ma brucia piano di una dolce e matura sapienza: le sue dieci parti si snodano tutte su questo superamento dell’io e dell’io come ruolo muliebre e del corpo, in una sublimazione della vita nella morte quale destino che si ha l’ardire di scegliere prima che malamente ci avvenga. La brutalità della guerra venne dunque usata come Occasione da quel manipolo di greche per formare un corpo sociale invincibile e per spingere quel nuovissimo e incoercibile Corpus – nel suo senso più Neutro – oltre la convenzionale costumanza del sopravvivere, nella morte. Cinquantasette Thelma & Louise senza cabrio azzurrocielo – il motore cronenberghiano che un poco aiuta quando si sta a mezz’aria nell’intramondo! – e senza quegli sfrontati cappellacci da mandriane.
Cosa rende allora e sempre intangibile e sovraumano un corpo se non il suo avere sconfitto la paura della morte prima che la morte? Il Cristo non poteva essere toccato dalla Maddalena perché i suoi passi di risorto già camminavano nell’aria oltre la morte, le donne di Zalongo non poterono essere toccate dai soldati perché usarono il gesto del volo (quanti altri modi meno carichi di senso simbolico avrebbero avuto per dare e darsi la morte!), traversarono l’aria in successione come streghe sante scavalcando con l’ultimo passo della loro vita la roccia nera e densa della morte – e non con la umanissima e pure giusta disperazione di chi minaccia di buttarsi dal cornicione perché ha perduto la sua compagna o il lavoro, ma con la grazia di chi è al grado zero del suo io, è nel suo pieno e raggiunto disinteresse.

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