PAGINE (Zona, 2006)
Roma è un ultrasuono che si allarga in un punto abbastanza vicino al mare e tende al suolo fra le sue propaggini un reticolo di civiltà: la vestizione nordeuropea dei viali diritti sotto l’architettura donchisciottesca dei lampioni, le losanghe d’avorio del giubileo tra i lastrici, la torsione nella schiena del pescivendolo che sciacqua le interiora nei rioni, lo spalancamento paesano dei sagrati ancora rasi da quel fiato di sole estivo sulle velette chiare delle spose, quella rudezza femmina dai fianchi ampi come aratri, il portamento cinico dell’acqua larga che le serpeggia al centro e porta i suoi rifiuti e i suoi lamenti nell’imbuto di una vasta foce che alza la voce dalla mia prestoria per restituire i corpi di due che dalla metà degli anni Sessanta hanno dato peso e gravità al mio chiamare per essere. Tutta Roma mantiene quella voce col timbro solare di commiato agricolo ficcata nel cuore dell’Europa. Tutte le strade svoltano in un tempo reale non atteso, ora un tempo operaio fatto di pane e portapranzi aperti su impalcature che non smontano mai, ora un tempo archeologico che è la macchia di vuoto che divampa nel traffico – e si sente il silenzio consolare in un tempio di strada tra i palloni accalcati nello scudo azzurro. E la villa che fa ressa di alberi intorno è un pedalare calmo e domenicale di famiglie, è la catena di ragazzi saliti senza cuore verso quel niente sulla mongolfiera che prepara alla vista enorme di dopo – come la spaccatura che dal Pincio si puntella sui fari delle automobili in quel moto ordinario della vita viva che sta sotto la vita di quelli che siamo quando siamo dall’alto.
L’alto è una categoria geografica di Roma, così gonfiata sulla fascia verde dei colli, ed è una categoria del suo cessato spirito: l’alto di dentro, l’alto di sotto, l’umido, il buio corporale delle catacombe con la Cecilia viva dopo il decollamento, il bozzolo incorrotto del suo corpo che spiega l’altra santa spalancata e barocca, Teresa che divarica le braccia per eccesso d’amore nell’amore di oro dell’angelo – e la luce dardeggia sui sacri amanti dalle vesti avariate dal contatto col cielo specialmente di lei.
In questo senso Roma con il suo sacro e la sua ironia con la grandezza letterale delle sue facciate con gli squarci di sole da vigna con i suoi cani e le vedute d’oro si è infilata dentro le mie parole. Ma soprattutto si è eletta a loro custode mia mamma con il suo dogma d’insegnante. Nei dopocena dell’infanzia era mio compito domestico registrare su carta la traccia del giorno come un sismografo che non oscillasse solo ai moti visibili. E lei correggeva il visibile e l’altro. Dunque dentro tutta la mia poesia c’è un fiume con dentro una madre morta e a cavallo del fiume una seconda madre che mi abitua a formarne un racconto, a riportare alla superficie il fardello eccellente, l’ipertrofia romantica dei morti. Inoltre il mio papà era un eroe di quelli veri: da giovane era partito volontario per combattere contro il caudillo Franco nella guerra di Spagna, e di mestiere raccontava dei suoi giorni di fuori, della storia che splende alla luce del sole. Lui viveva camminando la forma vera del mondo e teneva la cronaca delle brigate, del sindacato dei metalmeccanici e della successiva esperienza politica in Italia come deputato del PCI. Non ho mai smesso di ubbidire alla coscienza familiare e l’incontro all’Università con Biancamaria Frabotta pone il sigillo dell’autocritica sulla mia solitaria gestualità di versificatrice quotidianamente arresa al geyser del suo dettato e apre la strada a un progressivo svelamento di poeti che per me sono fatti con le ali aperte: Pasternak, Mandel’stam, Rilke per tutti. A me che abito la stessa casa e probabilmente le stesse ossessioni da quando avevo otto mesi non fu lieve capire il senso di scanzonata provvisorietà dei coinquilini romani, anche dei poeti che amano le periferie della città, l’inquinato multirazziale altrove dell’impero che ha sparso ovunque questo corpo effimero di luce che all’apice si sgretola.
Ma la mia poesia è non essere me e fatico dicendo. Continua a essere un modo di respirare, la parte sottile di un corpo che cerca il bene e fumiga dal petto di altri, una sorta di sacerdozio superfluo, è comparirsi di lato dalle profondità del sogno e abbandonare tutte le mattine la propria orma sulla riva del fiume e pescare dal fiume tutti i morti, i sorrisi radiosi dei morti, le maggiorate in prendisole col profilo di aquila sapiente come un frutto, le masse dei tuffatori gagliardi di Pasolini, le ombre dei bambini che creano intorno il buffo indispensabile caos della bella vita, ed è infine un modo clandestino per localizzare e tenere nel raggio del proprio amore alcuni – rari – santi contemporanei.
Le scarpe non vennero ritrovate.
Ma la luce batteva coitale sul corpo della ragazza
cristallizzato nella testimonianza.
Tra gli occhi e il ventre
tracce di lavatoio – un percorso a ritroso per stabilire gli alibi.
Il portone risultò chiuso con molte mandate.
Ardeva come un’ostia nella materia
lacrimale del tardo pomeriggio – con il capo impigliato tra gli arbusti
e la pervicace ripetizione dei giri. Per cause sconosciute
non ha potuto compiere i suoi anni
qualsiasi funzione avessero singolarmente ma un immobile
addio alla bellezza del mondo
riscaldava la fibra che resiste
grido di gioia del corpo senza dolore.
La rimozione delle spoglie gialle degli insetti e del grano da parte del
vento (una mole
di vento) che si arrotola e scioglie lungo la scarmigliata verticale
dell’abete, corre sotto i ventricoli dell’albero – contro
la resistenza metallica del cielo in panne nel sole
che si carica (con sfacciata irruenza) di argini e miele di questo mondo
dove la bragia
dell’oriente ha un rigonfiamento atomico
andando verso il quartiere di ferro degli sfasciacarrozze.
Cose che fanno respirare. La magnitudine. Lontana
dalla serrata riservatezza della cosa – cose
per metà vere che rincrescono.
La fermata improvvisa del cuore nell’opera ciclopica
(nell’astratto ricalco) dell’amplesso.
Le conseguenze e i mezzi della scomparsa: polvere
ossea nel materiale di risulta edile. L’occhio
numerico si volta e viene a galla
un’erba
smidollata e oleosa: i lineamenti spaziotemporali della gazzella in fiore, l’uomo che ieri
avanzava disarmato e immemorabile – trovava posto
nel contagioso zelo del cantiere
e tutto ciò che aveva nelle mani era bufera
di baci, era perduto.
La doratura sistematica delle cupole
Lanelle di pollini sui lastrici capitolini e altre migrazioni
ariose e il sole
calcificato sulle spalle come una soma trasparente:
articolare
il pensiero della grande dimenticanza,
il laconico andirivieni dei suoi messaggi: il moto
di tutto il cielo ricorda un aquilone.
L’ingegno patibolare degli aranceti, celle coperte di luce. Sole
terrestre alveolo
che non prescinde dai lenzuoli estesi come una sindrome infantile
nella campagna delle vecchie scuole
un ambiente sereno molto verde – quel correre
disarmato dai cardi e dalle malve al parcheggio del volto santo.
Serre bianche nei campi
odorosi di sedano selvatico e un setacciamento sommario
degli insetti da parte delle rondini – un dogma
primaverile. Ognuna delle ipotesi su un’immagine data
ci aiuta a rievocare nei punti fissi del volto la proporzione
tra la metafora alimentare degli uccelli e la sindone
dell’inginocchiamento.
Vento
e memoria del vento: esporre
come centralità del corpo sdrucciolo
la inaccessibile bontà del cuore
che fa il rumore del mondo. Riportare
il non detto del volto
alla sua infanzia, che è un soffio nel vuoto
poliglotta della stazione di una città grande. Pensa
a come un corpo è solo quando si ammala.
Pensa come è nel cuore la salute
che forma i muscoli pettorali e il volo tra i continenti.
L’umano ha il disincanto minerale dei tetti
e degli anfratti rovesciati come affluenti colmi di immondizie
verso il gergo squillante delle fontane al sole
dei Larghi (dell’Orologio, Fontanella Borghese, il crivello del fico
ruminale). L’umano ha freddo
e pietà, borseggia, ride, si sottomette – più è ampio, più si tiene
alle mani sferzanti dello Straniero sulla via del ritorno.
con la freccia mirata nel petto fai che la bocca affiori dal cielo
e dalla bocca fai passare il cielo se con la bocca se con tutto il cielo stai
dicendo sì
lei aveva confidenza con le fiamme
davanti al volto
bianco nell’urna dell’inverno
ma non guarda più niente
lui le solleva il lembo della veste
ora il cielo le piega la bocca
verso terra – ora il cielo
arde dalla sua bocca quietamente
***
i primi sogni della morte si formano come fiammelle sul dorso delle mani
e agli angoli
degli occhi, lasciano
bruciature nelle zone del corpo che l’amore logora
ora il cielo le chiede una supplica
olio che scorre senza vergogna
dalla bocca, brillantezza di albume sulla spalla prona
lo spazio tra le dita
è la fine del mondo dove s’insinua
il volto al sole, l’ostia
II
muta nel suo calore
sono piegata a te con la lingua
trasalita
di gioia tremenda – sono
vuoto fatto di pane
con estrema rapidità di rondini
era come formasse una pozza
con tutto il corpo un granello
di oro – io metto
il crematorio del corpo
sulla tua lacuna di luce
più in basso della terra
prendi
la salute spinale del corpo con la lingua celeste con il ferro
dei chiodi – ora chiedo un sinonimo del verbo andare
dov’è il bianco alla fine dei corpi
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