POESIA n. 218 (Crocetti, 7/8.07)

I
Anfibia voce dell’angelo, resistenza di cosa
raccolta
dentro l’ultima corsa del mattino. La voce
è atomica
fatta di respiro
di espianto
nel dormiveglia come in una piazza
la voce a me diretta
dalla feritoia della trincea
nello stagno dei lampi stradali dove in quella mattina di marzo mi hai
presa
sottobraccio e ridevi
come una rondine e niente di noi
presentiva la ruggine
che la morte ha posato sul mucchio bianco delle tue mani.
La campagna squillava di luce
io tenevo nei polsi il tuo fascio di rose
nel vento lagunare del pomeriggio
lo piegavo
col peso del mio petto. Voce senza disastro
nel quieto abisso del trasloco – il lato
est della casa è un cumulo di braci e di campane
il mio perdono adesso è inclinazione
alla pena di un corpo macrocefalo
samaritana nel silenzio ovarico del video
nel sacrario tra i larici
e la scarmigliata compattezza dei salici su questa valva o cranio
minerale di collina.
Pure ridotto a corrotta mutaggine il corpo
sbottonato e rivolto
all’abbassamento domenicale del cielo sulla concia di bestia del tuo petto
che come sempre tiene chiuso il cuore
radiante
come una fissione nucleare, pure
quaggiù nel marasma di trine
e rondelle schiodate
dai tuoi polsi
ai miei polsi (io raccolgo nei polsi
la melagrana in pezzi del tuo sangue) qualcosa
fissa i mortali
che si scambiano laghi sotterranei, un sotterraneo
infinito se un filo d’azzurro lingueggia
tra le ginocchia e le mie mani appena sul tuo volto
giovane che ricresce
da terra in soffi di anidride solforosa.
Il cuore è l’animale che cede calore
nel lume gastrico delle campagne, questo
tenerci in pugno della natura
e tra gli occhi la croce dell’addio cambiata in sole.
II
Il suo corpo somiglia alla distribuzione di un pane lontano
conchiglia estratta
dalla fossa comune del mare, mare
sotto la campitura delle tibie, mare la rotazione dei cecchini issati
sulla grondaia notturna, corpi lasciati disarmati là dove cadevano
tra rose di bossoli
e oratori di luce dentro l’arma del buio. Le casacche
odoravano di pula – tutto il corpo dei fanti
era pula e volava.
Il suo volto affiorava dal brusìo
del lume da notte
e diceva negli anni
intervengono cose come l’incapacità
di provare rimorso nei confronti del cibo che era vivo.
Le schede perforate degli aratri nel rotolìo globale del fieno – nell’oro
del cranio che prende il volo e da terra
osserviamo l’altare del suo viso – una porta nel cielo che mostra
gli estremi della natura
che si asciuga le piume e canta o insonne sotto le sue forche.
III
Giugno grondante una divina emorragia di sole
sui farinacci, l’incannatura, quel reggere appena
lo sforzo muscolare dell’amore
rottamaio di lamenti
misti a linfe succhiate con le dita perché l’atlante cervicale sprofonda
nel tappeto terrestre con l’albero
dove regna un innato dover essere
e sul tronco si poggia l’innalzarsi del tronco
che germoglia
schiume fosforiche, butta
una piaga d’amore dal vecchio ciglio del cielo. L’attualità
che attraversa la terra
splende dagli occhi nel buio
delle onde sonore
che dal quadrato saturo dei lombi
investono i flessori della coscia, capsule
articolari, i menischi sul piatto tibiale in sospiri maggiori del peso
del vento sui roseti sbocciati
dal corpo che implorava più materia.
La sosta della capinera sul tuo essere meno di niente
nemmeno mio, nemmeno
partorito, un fenomeno azzurro.
Certo il pinnacolo della tua anima non trattiene che luce, certo
il segno è d’oro e di sconfitta, è lo spettacolo
cinerino della valle stesa come una vasca lacrimale al sole
nella mucosa del giorno con opere secche
d’argilla mano mano che l’erba diventa viola lontana
da picconi rastrello e accumulatori solari. Cielo e fenomeni
tra le urla del bosco
dove latita un mondo antropomorfo e puro.
Il muso nel fieno poi
nel ferro
nel vuoto alfabetico
dell’animale grande: dove finisce
quel dolore di bestia
la gabbia
dell’urlo. Le penne della coda
e la spinta dell’acqua che vira
verso la primavera.
La specie senza colpa dell’animale mite trascinato
per le zampe come un uragano
nella portata corporale dei fiumi come un azzurro scuro di animale.
In un tappeto cremisi di nubi
cola
la ferita invernale nel cuore
della primavera e trabocca con olio.
Il molo senza sforzo tiene
il mare nel sacco dei fondali con l’aria in viso, una pattuglia
non operativa
di nuvole insabbiate
vicine allo strisciare delle serpi tra le ombre tonanti dei pianeti
e quelle toppe sulla superficie
sono il centro macedone dello schieramento, altrimenti frugale,
di identità terrestre
acino gigantesco di carbonio
con i poli schiacciati
dall’armonia di masse in rotazione
nella ruota dell’etere, occhio corrotto di puledri in nodi ribollenti
di battaglie, levata eliaca delle ipotenusa della stella di Iside
che ricompone il corpo del signore
del limite estremo. Io ricongiungo
pezzo su pezzo il corpo del mio amore
su domini di alghe, io lo chiamo io lo faccio tornare
dai quattordici punti della terra
lo incollo con la plica delle lacrime io stringo
il nodo scandaloso della sua spoglia australe sui miei fianchi
con asteroidi in trono
e salmodìe, dominazioni
sul litorale ionico che è un palazzo di sale con fondamenta
di altomare
vuote, un disuso di ruggine e coralli, celle nuziali rotte
in ventricoli e schegge, dure arterie maschili
suturate, archetipi e cristalli di silicio, sopravventi
di truppe con profondo splendore metallico
la regale zizzania degli dèi sul tribunale d’anime
annegate, liquidazione d’ali
sulla tavola periodica del mare.
Io ti chiamo io ti faccio risorgere io ti stringo
ai miei fianchi come uno stendardo io ti tengo sdraiato sulle braccia
intero come fossi tua madre come il sole
evirato, distrutto, ricomposto da me con questi nodi.
C’è pietà come acqua
in quel corpo che sembra
voler dire qualcosa – sono
sopraffatto dal limite del mondo
o un bambino senza sangue che chiama
per l’ultima corsa: avvicinatevi
al mio corpo
avulso, ai tralci
del vigneto legnoso trenta chilometri a valle.
IV
Il lago opera una turbolenza al centro del petto – un giardino
con striature di sole
dove l’estraneo sigla la terra con brevi linee di sangue.
Le impronte nella neve del sentiero, il corpo sciolto
nelle malghe. All’origine
lo scudo argenteo della invocazione, il nome del padre
nell’astuccio di latta.
La gioia invernale di un giardino: dotti linfatici
vivi. Le cisterne coperte da cataste – un sistema
di contenimento sotterraneo del crudo
inverno. Inverno
è quello che rimane nei vestiti dopo il sisma notturno.
La notte dopo la partita la città
dava un trambusto di legna marina e c’era sabbia
sui sedili anteriori e quei resti essenziali
gli alberi nerofumo conglobati al corpo come per maggiorare la distanza.
Con un occhio di cane interrogavo smisuratamente
il raschiamento della materia del corpo. Ho voluto conoscerla
perché avevo un trasporto per lei
come un corpo scomparso dalla croce.
V
Si va all’assalto correndo
dal fronte delle campagne con la grappa che infetta
il fiato e il coraggio dei fanti passa sui morti
sulle armi composte come mosche acquatiche – e pensare
che uno ha nel cuore
il grido soffocato della donna
che aspettava senza un lamento nel mondo bianco delle soglie
invernali, sul vialetto tra i lecci e la madreselva
nei capelli confusi
alla fragile arca di fieno
e il suo profumo insiste alle campagne insieme
alle campane in quell’alta domenica di giugno che allargava il ponte
della feria: quello
che sta correndo
verso l’arco di gioia delle sue braccia
con la collana di vetrini azzurri della fiera, alla fossa di sale
dei suoi denti, dei seni aperti
nel sentore di oro marino dentro l’anello oscuro
della sottana: quello!
sono io, io
finalmente – e ho pidocchi nel corpo
che sfiatava il suo nome nella fretta mariana della ruota del sole
mai fermo
tra carrubi e metano e pareva destino
l’impressione del paradiso che stava uscendo intatto dal suo fiato
decompresso di cosa che daccapo finisce
e mi rivolge qui con tutto il corpo a questa intensa
distruzione della materia.
Fiori che sono fiori esemplari
del lutto. Domani
saremo cielo domestico
sorretto con il corpo che è una mandria inumana, domani come quello
il cui nome trasvola tra i gabbiani e la calotta aperta dei biplani e i gas
nella spunta dell’acqua, come quello
saremo, che è partito
con la zappa in spalla, l’occhio grande dei bufali nel muschio
tuscolano e nel fondo del petto il miglio d’acqua
che già fermenta alla nullità del sole.
Nel fronte interno srotolano i dispacci sotto lampade da miniera
e l’ignoto attraversa il paese come filo spinato che sente
battere la pala dei fanti, lo smalto
delle gamelle contro la latta
e metri d’aglio. Maria, abbiamo
del gran danno nella testa
sporca di bestia che scappa
sottoterra, abbiamo nella groppa il crollo dei muli
sotto il peso plebeo dei materiali. Dammi il cuore
Maria, perché il tuo cuore
pesi come la terra tra le mani
mentre io ti raggiungo sotto il pericolo. Maria, con i pensieri
che non smettono mai di pensarmi, anche dopo
tienimi a te, al mio posto
sulla terra dei nomi. Solo tu
sai il mio nome Maria, perché il mio nome è all’orlo
della tua gola, bianco
come un affogato nel canale
sepolto nel tuo bianco che rinviene. Anche dopo,
stanotte, quando io sarò cenere, pronunciami Maria con il tuo corpo.
VI
La terra sta per tramontare come un santo viatico e l’industria di lucide
stelle già illumina il corpo
dove la gioia espone le sue stigmate.
Poco più che silenzio perché il mondo regga
il soffio che concorda
la sua bocca al plurale dei morti
la noce placida e primaverile del cervello sul fondo dello scisma.
Aria ansante di corpi in maglia leggera sul vascello terrestre.
Il cielo è un obolo monumentale sulla fionda del pesco.
Uno stelo di luce francescana sotto l’onda dei monti. I verricelli
sulla schiena del diavolo. Nettare barbaro di corpi in marcia come un
pestaggio acerbo
d’erba, di frutta, di spose
lasciate cadere a morsi in profondità inarrivabili sotto
la steccatura sommersa degli zaini, tra gli ex-voto e la zavorra diafana
del non-mondo che tremola dove si tengono chiusi ali e pianeti come
animali preistorici. Insieme
vivere e morire, con le coccarde
sulle sforacchiature dei giacconi. La premessa creata nel cielo
dal consumarsi come ceri
delle vedette
tra staccionate, casse di munizioni e cilindri
di cloro, spargimento di sabbia pagana sul sagrato dei borghi
e gli esoscheletri delle granate
abbandonate come scarabei sacri nell’aperta campagna
nuda e attenta per la detonazione di un pugno di uomini.
Lumache
su una ciurma di foglie di giugno distorte dall’uso
laconico del vento tra le stazioni
di perfetto nitore del mondo
pieno di angeli da coltivare.
Il ventaglio sonante delle ali nel salmo domestico
l’integrità stellare del profilo.
Si piega il sole sulle ginocchia, lega
la fune chiara della fronte
al cielo. Il corpo
nel sottomondo è impasto di radici
conca petrosa, straccio, minerale
quasi morto è lo sbrego nell’aria
fatto dai ganci delle gru e da aceri in pugni di cenere.
Intagliata la terra dal binario come l’anima dalla luce tra i volti
inarginabile.
Lo sterminio dei campi interrotto dal bianco dei meleti.
L’estasi ferma del cavalcavia
nella lanugine del mondo nuovo. Amici
fuori dal cancelletto della terra
promessa
come bimbi nella isolata pioviggine.
Risalgo dalla tua bocca Maria
con queste ultime parole
del corale dei morti: Maria
mia per sempre Maria, non aver fretta.
Il sole perfetto della parola
un mortaio
sul golfo del popolo inginocchiato.
Il sommario dei fatti minori nelle colonne laterali del quotidiano,
fotografie
di bambini lungo la superstrada in costruzione. Sarei venuta a piedi
a onorarlo come uno spazio aereo sulla terra, una rotazione
ciclonica, vecchie storie di volo e la famiglia soffre da innocente e
scavata nei visceri come l’albero.
VII
La loro carne è estratto di cielo
punto
che fa vibrare
il nome che nasconde
inserto buio della zappa
nella moltitudine della terra
che sfrutta atomi
di anidride per innalzare la festuca erbacea dal costato
dove noi sorelle posavamo la fronte crollata
per la scossa lunare del più profondo muscolo
della nomenclatura addominale.
Al rombo zitto mentre sale gramigna dal loro petto resta attaccato
il rumore di labbra spiccicate
nelle sere d’estate in parole che avevano aperture alari
per le spose bambine
dei foraggi, spose scalze sui campi d’erba spada in camiciotti di cotone
bianco e lo sfondo del bosco infuocato
dalla sonata spiccia dei capelli come un latro canino.
La colonna umana è una lacerazione mercuriale del buio.
Nel buio della guerriglia cremano i corpi
con un fare randagio di animali. Era sveglio
prima che toccasse terra
lo sconciamento del suo muso di cervo
che annusa
il gigante di cenere disteso
nella cava del vento d’alta quota
e fremevano per il fiato secco della terra le narici
e i larici, i filamenti d’ali delle fibbie
annerite, agli orli dello squarcio
del suolo dopo il pasto del fiore di fuoco. Boato
e rogo. Rotto il tetto dell’orbita
focolai di ematomi sulla fronte
che ho baciato urlando brevemente
in un frullo di averle. E’ caduto lontano perché era sveglio
nel cratere del bosco il suo passo
scomposto nelle sostanze
teso come un elastico che non si accorcia adesso
fino alle mie ginocchia alla mia trappola rivolta al cielo di dolore
alla mia teca
cranica dove non smette
il mattatoio solare
la medialuce
della dura madre
operosa del tardo pomeriggio, un trauma aperto che non passa
dal suo corpo al mio corpo, dal suo corpo al mio corpo.
La croce medica della torre come una bianca scoria nucleare
sul farsi luce del giorno: vetro
lucidato dal sole che continua
a spargere il suo caldo sulle nostre opere
di alberi
di stoppia
fina spinta a chinarsi
dando il senso di una apparizione
primaria
fatta della materia dei nostri sospiri e del fango perché lo stato
di perfezione venga dimenticato nella campagna che
abbaia senza riposo.
Il lino fragile delle tovaglie nello scenario del mondo
e l’ingiuria di questa bellezza
leggera che si muove
a fontanella intorno ai fianchi. Il tronco caotico
del mio corpo altamente profumato di mela dolce non può mutare
la propria ignoranza
l’oboe e la luce
del mattino
domenicale filtrata dalle tende come lo squaglio a stocchi delle erbe
in quello che il sole non deve
toccare: le ulcere fetali, i cavallini – gli occhi
incominciati nel mio ventre.
VIII
Dio faccia con me come tu hai detto
Io sono la spora che rimane – ecco
sono la serva
e la costanza.
Ma niente a che vedere con il volto l’amore
su quel camminamento non asfaltato:
la crescita incontrollata di una sagoma espulsa dalla ghiaia
un insieme di corpi caldi aspiranti: come un magnete
in fondo al buio
l’altro caldo di lei, pacchetti di proiettili sepolti, tacche di artiglieria
il silenzio compatto delle ossa turbini bianchi e senza vento, l’organismo
infantile
incagliato al centro come l’ultima luce del mio giorno d’amore, della
mia vita.
Passano come ombre anche bellissime le vedove bambine colme di grazia, le incestuose
sorelle
come bufale rallegrando il mattino, gonfie
melogranate di san Martino con il riso e il pianto
nel luccichìo degli occhi – lamine
della roccia primordiale – affioranti fascicoli
di parole scappate dagli anfratti ai garzoni
che non credevano di saperne tanto
della ricrescita
di quegli iris lasciati in sterpose distanze suburbane
dato lo scontro di rapaci in mare che fu quel pomeriggio di fienagione
e ruberia di millimetri senza responsabilità.
Lei ha messo il suo morto sotto l’albero – nella
sua vigna catarifrangente
fidando che si veda
come un sole
o traslucido vischio
di uccellatore o almeno in quanto albero veda esso
il suo frutto
l’osso lacrimale
la cartilagine
dell’ulna maturare sull’unto degli attrezzi, il suo tempo
ripartire
dalla toppa di un volto
simile al suo, più piccolo. Ave
Maria, declinazione
plurale del nome
che sale
dalle trincee, io ti saluto
in ogni donna, io
ti benedico, faccio di te
mia madre, questo è il figlio dell’uomo
che non ti tocca, sei anche tu
Maria l’immacolata.
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