Egan Moira (9.11)
MOIRA EGAN, Amore e lavoro
a cura di Maria Grazia Calandrone
su Poesia n. 263 – settembre 2011
Per stare pienamente dentro alcune della poesie di Moira Egan – qui presentate nella innamorata traduzione di Damiano Abeni – occorrerà compiere un’incursione preliminare nell’affascinante vita di Suzanne Valadon, poiché riteniamo che, se un poeta scrive su un tema così esatto come una biografia o una serie di dipinti, sia interessante rendere conto delle fonti. Ebbene, Valadon fu una figlia illegittima, una cavallerizza di circo che, rovinata da cavallo, si fece pasticcera, sarta e fioraia, prima di diventare la modella più ambita dai grandi pittori francesi di fine Ottocento (nomi quali Toulouse-Lautrec, Degas, Renoir) e di assorbire per fenomeno osmotico le loro tecniche – e infine fu madre di un bambino di paternità incerta, che diventerà l’Utrillo pittore. Poi la neomamma s’innamorò di Satie e poco dopo di un agente di cambio – fatto che dovette temporaneamente indurla a confinare humilemente la propria esuberanza in soggetti felini e vasi di fiori – ma grazie al cielo, per i 30 anni che la separavano dalla morte, visse con il trascurabile in quanto pittore ma giovanissimo e bellissimo André Utter e, per segno d’amore, dipinse il gioioso “Adamo ed Eva”, che conteneva il primo nudo d’uomo osato da mano femminile allo stato dell’arte – anno 1909 – e, poco prima di morire, nel 1938, ci lasciò l’istantanea del proprio busto arato dal tempo, con il broncio volitivo e trasparente della giovinezza mutato in una piega come di delusione e incredulità. Certo: esposizione naturale di corpi irregolari e solitamente veri – come dice perfettamente Moira Egan: le gambe fatte per reggere il peso di una donna vera – che meriterebbe più ampie trattazioni! Ma qui occorre aggiungere solo che fu lei Valadon a indirizzare il figlio verso la pittura, per salvarlo da un declino alcolico. Così, nel braccio verticale – come Minerva nacque già armata e verticale dalla testa del padre – di questa croce d’arte e d’amore e forse di infera solitudine, incontriamo Moira Egan, a sua volta poetessa figlia di un poeta, Michael Egan. Non sarà dunque senza significato che in questa scelta di testi Egan figlia cominci con il rivolgersi al ritratto di Utrillo ragazzino – fatto (figlio e ritratto!) dalla madre – usando la forma insistente della villanella, per esprimergli solidarietà e condivisione del suo affamato (e assetato) dolore e continui, più avanti, descrivendo il dipinto di lui ora baffuto e chino sul cavalletto, davanti al quale sconfiggeva a sprazzi una sopravvenuta infermità mentale. Ma il colore vinoso che la madre ha spalmato sulla parete alle spalle del figlio denuncia l’inquietudine di entrambi, così come il giallastro e l’ombrosa attenzione che convoglia la sghemba amaritudine del volto giovane in fasce di grigio. Anche così ci si consola, consolando altri che ci sono venuti vicini per affinità attraversando mute lontananze temporali e percorrendo a piedi miglia di nebulosa tristezza, stato di cose interne più duro del franco e vivo dolore. Queste poesie di Moira Egan sono santini così: laici, caustici e struggenti, dei quali comprendiamo la portata leggendoli non certo come didascalie e neppure come omaggi a quadri che pure devono essere piaciuti all’autrice, ma come mostre della sua carne e delle sue idee sul femminile, in pieno stile Valadon: sono dipinti fatti con le parole. Subito dopo, infatti, Egan attacca in prima persona con un divertente botanismo amoroso: tenero, scherzoso, malinconico, sardonico, colto e “americano” nella rapidità, in certi effetti gergali e negli affondi di luce su saporiti interni domestici, visti come spiando da una porta socchiusa. Anche in questo caso sarebbe utile unire alle parole di Moira Egan le competenze naturali alle quali si riferiscono le poesie, a designarne più profondamente la concretezza, per sentire come ognuna di queste parole sia impregnata dalla sostanza nerboruta, linfatica e fruttuosa che rappresenta. A interessare la poetessa sono, con ogni evidenza, i fatti della vita ed è la vita, nei suoi bozzetti e nelle sue intenzioni magne, che oltrepassano la nostra minima singolarità, che Moira Egan vuole restituire. Ma la natura, traslocata in poesia, contiene sempre uno slittamento metaforico, a partire da quello dell’io che agisce nei versi. La se stessa che mangia, che cammina rialzandosi il bavero nella sera d’inverno, la donna-radar immersa dentro il canto delle stelle, quella che altrove ha il corpo inciso dall’amore dei maschi, che è arte preistorica o simulazione di una colluttazione di scimmie – quella se stessa, è in realtà una seconda persona, una faccenda osservata, come quando nei sogni ci si vede dall’esterno del corpo: con quel distacco, il turbamento lieve di quando si esce dal paese noto e consueto del corpo. Come nei quadri di Chagall, con gli abiti e i capelli tutti gonfi del vento del volo.
Certo l’autrice sa giocare con le forme, con i rigori delle gabbie metriche e con i toni: dal sarcastico sfrontato della vamp da bar al paralirico con gli occhi infitti nelle teche geologiche e nelle ere che hanno formato i sonori diamanti siderali – ma ovunque batte la coscienza di un cuore di pietra, da ovunque sale l’eco di una forma cava, quasi il suono di uno dei catini, dei bacili di Valadon rotolati con i piedi, il muto o la parola remota di una figura rimasta disabitata in mezzo al petto fin dalle origini: ma, per similitudine, quella lacuna sente il canto lontano delle stelle arse – e la perdita, strato su strato, foglio su foglio, accumula rocce granite e una fame da smentire con un gesto piccolo che sembra curare la piaga originaria, mentre lenisce le ferite vere sulle mani di lei, che per amore sbuccia le castagne senza conoscere il trucco che allevia il dolore. Ma lui ha un piano. Farla pari alle stelle?
Certo l’autrice sa giocare con le forme, con i rigori delle gabbie metriche e con i toni: dal sarcastico sfrontato della vamp da bar al paralirico con gli occhi infitti nelle teche geologiche e nelle ere che hanno formato i sonori diamanti siderali – ma ovunque batte la coscienza di un cuore di pietra, da ovunque sale l’eco di una forma cava, quasi il suono di uno dei catini, dei bacili di Valadon rotolati con i piedi, il muto o la parola remota di una figura rimasta disabitata in mezzo al petto fin dalle origini: ma, per similitudine, quella lacuna sente il canto lontano delle stelle arse – e la perdita, strato su strato, foglio su foglio, accumula rocce granite e una fame da smentire con un gesto piccolo che sembra curare la piaga originaria, mentre lenisce le ferite vere sulle mani di lei, che per amore sbuccia le castagne senza conoscere il trucco che allevia il dolore. Ma lui ha un piano. Farla pari alle stelle?
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