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Frabotta Biancamaria, Gli eterni lavori (Poesia, 2006)

FRABOTTA, GLI ETERNI LAVORI
in Poesia, 2006

 

Biancamaria Frabotta Gli eterni lavori, San Marco dei Giustiniani, 2005

Biancamaria Frabotta in questa recentissima raccolta sembra stare al mondo con una leggerezza d’altri tempi, un po’ di sguincio come nella filigrana del proprio sguardo carico di una spazientita ironia immersa nell’amnio di una solitudine matura come matura l’imbrunire nell’affettuosa rete di relazioni che viene nominata e nominata. 

Ma il mondo che descrive è il mondo vero di adesso e la circonda e la tiene. La natura le ha dato un passo lirico, un abbandono e un senso della dilatazione del tempo come forse soltanto una nascita. Ci troviamo con lei su una terra dove vivono gli uomini insieme ai cespugli e la profondità del proprio stesso esistere è un fatto della natura.
Il poeta è un fatto della natura. 
A chi scrive, da sempre, interessa la persona che sta prima della parola, l’essere al quale consegue il discorso. Ebbene, Biancamaria Frabotta ci parla di un piccolo branco di poeti che sono carne ed ossa in evoluzione: partorienti, morenti, infelici, necessari, lontani – e sembra parli di uno stormo di uccelli costretti a camminare sulla terra, un movimento corporeo che lascia segni e sta nella prassi del tempo.
Riconosciamo la consuetudine dell’autrice a fare un buco improvviso nella trama che pareva sostenerci, a piantare nel mezzo del canto la sciagura del tempo. Al centro del libro, infatti, le “poesie per Giovanna”, l’ultima delle quali è però dedicata “a mia madre” stanno come un giro nero del canto, una comune nominazione di amori in punto di respingerci al mittente e di chiederci insieme il bene che resta della memoria.
Bellissime le dediche a Caporali e Cucchi, vertice assoluto i cinque versi che trascriviamo come fossero cose del nostro sangue: “Normalità che posso amare solo / violandone la norma che la regge / filo di ferro per i fiori dei morti / frase che perde il filo. E lontano / dalle selve m’inselvatichisco.”
Il libro si conclude con l’iterazione di un marito che al mattino vola via dal letto, apre la strada verso il mondo, al giorno diurno, al chiaro delle cose – mentre i poeti non fanno che pungere e tornare, pulci e fantasmi che si rintracciano e stanno nello splendido eterno lavoro vegetale e animale, dov’è anche la madre che impara a morire ed è nido disabitato e, al capo opposto dello stesso filo, il bambino che gioca sulla sabbia e in questo libro d’amore porta l’acqua di un mare liberato.

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