Benedetti Mario, Pitture nere su carta (Poesia, 1.2008)
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QUELLO CHE MI PRONUNCIA È IL NOME DI TUTTI
Per essere poeti bisogna avere un eccezionale costrutto psichico, in primo luogo saper portare un immenso carico di dolore con assoluta levità – così, come se non fosse, mentre si scambiano informazioni sul parco-giochi che abbiamo in comune.
E poi tradurre la ferita in una radiazione più decisiva del dolore, ovvero il chiaro della fratellanza.
Tu come tutti gli animali e come me sei provvisoriamente in piedi in questa materia elementare, sei un poco eccentrico volume solido.
Non si tratta infatti di trasfigurare il proprio dolore (del quale ben poco deve interessare) con l’alchimia del verbo, ma dell’intero carico dell’uomo.
Non esagero e chi legge i (rari) poeti lo sa.
Primo banale e incessante dolore fra tutti è l’assidua coscienza della morte, alla quale ciascuno ha dato la propria risposta: ascesi, procreazione, allegoria, reality, disperata allegria dell’hic et nunc, arti, divinità e tutto ciò che la tentacolare fantasia dell’uomo ha potuto spingere nei corridoi di tutti gli universi.
In questo senso il libro di Mario Benedetti è costruente in una maniera vergognosa e arditissima, e tremendo come un osso – o meglio, come l’osso centrale di una costellazione: gli scarnificati versi sono stelle di affettuosità e violenza, cose dotate di una propria interna fluorescenza.
Da essi irradia quanto sgorga dall’arte come ri-creazione di cose vicine, basse, malate dell’effimero – ma dolcemente, definitivamente.
Il libro sembra significare con una amorevole ironia che in fondo dura più la morte della vita, che si può fare affidamento poco su questa carne onirica.
Le cose dure e vuote del mondo vengono utilizzate come strumento, l’opacità dell’oggetto che non viene attraversato dalla luce rende traslucida la parola che lo solleva dal buio come un reperto: siamo sotto i faretti alogeni di un museo e le ossa nelle teche rendono concrezione le parole, materiale da scasso, scalpello e leva che fanno varco e spacco.
Queste parole-stelle-scalpelli-d’ossa sono dati luminosi collegati da fili immaginari nel buio dello spazio: la forza centripeta della loro costellazione è il corpo dell’uomo che le pronuncia, perché Benedetti non è un oggetto inanimato e usa tutte le sue facoltà ipersensibili, si fa attraversare da tutto e piega e solleva il corpo, il suo, a testimoniare il mondo così come non è nei suoi brandelli, a reggerne le colonne e i colori in luogo di noi, che usiamo il suo lavoro sacrificale, il reperto anatomico delle sue parole per penetrare di qualche altro millimetro la parte immutabile di questo microcosmo che abbiamo intorno alla reliquia del cuore e che somiglia maledettamente al cosmo.
Quello di Benedetti è il tracciato di una lucidissima, violentissima, dolcissima, compassionevolissima, acutissima veglia che parte dal bruciore degli occhi umani (specifici e poveri e soli) e plasma un gigante trasparente con i piedi nel fango e tutto un costrutto di frammenti vocali su per la canna della gola, è il diario di un uomo che ha più pagine strappate che salve e quel che resta non ha più il suo nome ma la sua essenza, che soltanto così può venire detta, con quella modestia quasi feroce, con quegli strappi.
La parola di Mario Benedetti è un asse non più terrestre, si è spinta oltre gli effimeri contorni della materia, è un esodo continuo di parole-molecole che rifondano la massa evanescente di una stella nuova a bordo pagina – e abbiamo bisogno di stare nel libro per trovare quel modo di dire che è fatto del buio assoluto nel quale le poche cose luminose maggiormente si stagliano: sono poche le parole, brevi i versi e le grida, ripetute le immagini e le lacrime.
Credo che questo libro fondi per tutti noi una nuova lingua e ci insegni a commuoverci componendo elenchi e denutriti cataloghi melancolici, che getti il seme di un coraggio inedito nell’affrontare il buio del sottopelle, il museo vivente della terra, il silenzio tremendo del sovraumano e ogni post-scriptum del corpo.
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