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Paolin Demetrio, La seconda persona (il manifesto, 1.5.12)

PADRE CHE NON CI LIBERI DAL TUO MALE
su il manifesto, 1 maggio 2011

 

Demetrio Paolin, La seconda persona, Transeuropa, 2011

PADRE CHE NON CI LIBERI DAL TUO MALE

Nella letteratura italiana contemporanea maschile i padri sono morti o non stanno comunque troppo bene. Sembra che un meteorite abbia colpito l’immaginazione del nostro piccolo pianeta letterario e lasci imponenti cadaveri in vista, nere balene spiaggiate. Proprio tra i racconti de La seconda persona di Paolin appare una balena lavorata dagli uomini dall’interno, con spreco massiccio di sangue, denso e nero come petrolio. L’immagine rende l’idea: questi figli, piccoli come Lillipuziani, elaborano dall’interno dei corpi la fine dei padri, ne colonizzano temporaneamente la morte, si nutrono fin che possono di quelle carni, fin che la propria carne riprenderà senso e consistenza. È il nostro modo di supplire a un’assenza: nutrircene, renderla: parole, che è tutto il poco oro che possiamo. I resti cavi mettono in chi resta una volontà di sgretolamento: nemmeno lacrime, ma una feroce volontà di dire. Pensiamo al racconto di Tonon nella prima parte de Il nemico o al rinvenimento del cadavere del padre, tradotto nella propria autopsia sentimentale, nell’Italia De Profundis di Genna. I figli non si sentono all’altezza, i papaveri sono alti alti alti e i figli sono colpevoli come bambini, rovesciano in una straziante infanzia morale il vuoto stellare che ha lasciato quella figura di padre scollandosi (di quando cosa ch’è felice, cade: così Rilke chiudeva le sue Elegie) dall’orizzonte del possibile. Padre, essere come te non è possibile, perché nessuno di noi può più indossare le tue due virtù: sacrificio e fatica. Io, figlia di un metalmeccanico combattente volontario della guerra di Spagna, mi permetto di aggiungere: ideali. Tutto questo faceva grandi i padri. Inimitabili. Padre, davanti alla tua morte generale, davanti alla oscurità della tua ubicazione, i figli restano inanimati come oggetti oppure felici come bestie in una bianca nullità, nudi e inconsapevoli del male fatto. La fabbrica è la scena trasfigurata di una mutazione genetica, un palcoscenico dove non c’è più niente al posto del corpus vuoto dei padri se non la lancinante consapevolezza di una fine e tutto il dolore della coscienza. Solo l’ingresso di una carne femminile, sia quella della caproniana madre ragazza sia quella della felliniana operaia, è un ingresso di sangue vivo, di una versione gioiosa del corpo, altrimenti usato come attrezzo da lavoro o da pensiero. Ma anche la fabbrica era femmina, e i padri furono ingranaggi nudi offerti alla sua grande digestione, alla sua interminata gravidanza, lei vampira solare tra le stoppie bruciate che poteva formare le sue azioni e la sua emanazione di oggetti solo grazie a migliaia di corpi di maschi. Ecco. La fatica e il sacrificio dei padri vengono salvati dal nero caravaggesco dell’oblio da una generazione di scrittori che celebra il suo amore, la sua rabbia e la sua disperazione. Relativi.
Paolin ci dice che sono le emanazioni del nostro cuore a contaminarci, non è il mondo a metterci nel corpo la sua pena, la sua inutile richiesta di perdono, la pioggia sporca. Purple rain: I never meant to cause you any sorrow: ‹‹io non avrei mai voluto darti dolore››, cantava Prince nei terribili Ottanta, gli anni della marcia borghese dei 40.000 quadri Fiat che permise a Romiti di non firmare l’accordo sulla cassa integrazione. Paolin racconta come la marcia segnasse nel privato una generazione di padri venuti da un mondo dove uno come me lo si lascia lì fino a quando serve. Poi basta. Alle spalle di questi uomini, ai quali Paolin dà la parola cambiando per due volte io narrante, viene alla mente l’icona cinematografica di Volonté in La classe operaia va in paradiso di Petri, che confida ai compagni il virile segreto elementare di un lavoratore alla catena di montaggio: “un pezzo: un culo – un pezzo: un culo”. Così La classe operaia andava in paradiso. I sentimenti e gli scopi per i quali si consumavano quei lunghi silenziosi doni di sé non sono più consoni a questa disumana solitudine. E allora ci pieghiamo, in cerca della bellezza del dolore e del trauma, perché la bellezza della bellezza del mondo è perduta: cerchiamo la bontà fin dell’asbesto che ha ucciso i padri, cerchiamo la colpevole bellezza del loro infarto di specie. Abbiamo queste modulazioni d’aria per celebrarne il requiem. Non li abbiamo davvero fronteggiati. Damiano invece, l’alter ego fraterno, il tu, la seconda persona, è felice perché ha ucciso il padre da vivo e non gli occorre trascinarne il corpo oltre la morte, non deve nemmeno scrivere per salvare quel corpo dalla morte, né per ricevere finalmente la benedizione dall’avversario. Nemmeno deve seppellire i morti secondo la nuova pietà di Caravaggio che Paolin dice nel frammento finale. Il fratello è felice perché è stato coraggiosamente immorale: disubbidiente, cannibale, naturale: ha assunto su di sé il male da fare per la propria libertà, mentre Luca, il protagonista pensoso, va per via di pensiero, ragiona che, se siamo stati fatti anche di male, la colpa del male che facciamo non è nostra. Luca accusa direttamente Dio. Compiere il male con la naturalezza di un animale, non sentire il male dell’altro, ignorare quanto male produca il proprio esistere, è la sola felicità possibile. Noi invece, che siamo stati inanimati e muti come oggetti, parliamo. Siamo comunque creature identificate con l’umiltà di un lavoro. Ma non è toccato solo agli scrittori, ci dice Paolin: anche gli operai contemporanei si muovono nella falsificazione architettonica della fatica: è devastante anche il travestimento, l’opera cieca del camuffamento di un lavoro che nessuno è più disposto a sopportare. Occorre che la fabbrica sia “consolante”. Occorre che nessuno ricordi che morirà. Certa chiacchiera da bar del dopolavoro che Paolin trascrive porta alla mente Lo splendore dei discorsi di Giuseppe Aloe, romanzo intorno alla rassicurante banalità delle conversazioni che aiutano a far venire sera. Come discorso che veste il pensiero, la bella prosa di Paolin si concede improvvisi lussi poetici, fa sentire il gusto malinconico della lingua che vuole farsi bella come una bella femmina: passano tra le righe Caproni e Eliot, passa tutta la salvezza naturale qui possibile, nelle mani di una donna che fa la barba al suo uomo, passano certi sottotitoli bellissimi come La nuda paga del tornio, capitoletto dove entra in scena – ovvero in Mirafiori – l’operaia, la femmina involontaria, il mistero della quale nessuna sconcia immaginazione potrà mai svelare. Infine, una battuta terminale come non c’è salute se non nell’oscuro in cui tutti sprofonderemo, sembrerebbe essere la nota pulsione di morte, ma a chiusura di un libro dove viene detto – nel racconto immaginario della sopravvivenza di Anna Frank – che anche la Shoah si può dimenticare vivendo sospesi in una bolla di grazia incosciente, dobbiamo intendere la morte come perfetta e definitiva felicità, come il paradosso vitale di una specie tesa a un indifferente e indifferenziato bene: la sazietà del nulla. Intanto che sono vivo io scrittore ho la testa quasi mozza e mentre – così lentamente, parola per parola – il sangue della scrittura si versa dalle mie mani, aspetto che finalmente il neutro della morte venga a macchiarmi, che quel neutro perfetto e definitivo dilaghi anche su di me: cominci dal pensiero.
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