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Attanasio Daniela, Il ritorno all’isola (il manifesto, 25.3.11)

PAROLE COME POMODORI AL SOLE
su il manifesto, 25 marzo 2011

 

Daniela Attanasio, Il ritorno all’isola, Aragno, 2010

PAROLE COME POMODORI AL SOLE

Il ritorno all’isola è uno sperone, un raschio lavico di parole incagliate nel mare animato del vivere, è un libro pieno delle ondate di una lingua che si abbassa quasi al parlato e poi si impenna. I versi: il loro andamento, il loro ritmo, hanno un andamento acquatico – e lo stesso la lingua, che scivola dalla conversazione alla lirica su impasti di perfetto equilibrio. 
L’isola di Ginostra è la stanza all’aperto di una memoria amorosa, è un luogo così vero da diventare un simbolo, che viene posto al centro del viaggio. Prima e dopo Ginostra c’è la città di Roma, fatta di cemento e altre materie pesanti che portano su di sé cose leggere e corpi che hanno odore. Essenzialmente si prepara nel vento la fine del libro, tutta ariosa di aria combusta: alla fine si leveranno le fiamme del compianto e di una rapidissima preghiera, fatta spiegando, fatta con pudore, lo vedremo. Intanto, le prime piazze e strade di città vengono descritte per accumulazione di dettagli, è reso sulla pagina il moto dritto del vento e degli oggetti sottili – e soprattutto gli odori, quelli pesanti e domestici delle cucine, quelli che passano con le folate e sono il più lieve, proustiano mezzo di trasporto: attraverso gli odori si entra nelle case e nelle solitudini degli altri, nei loro corpi, sotto i loro vestiti, sugli asfalti. Ecco che dice Attanasio:L’acqua della poesia scorre su cose sporche e / zone d’amore come sui rauchi rumori / di questa piazza – e parla anche da subito di fedeltà al ricordo. Ma la sua memoria non è una figura piegata né ha la testa girata all’indietro, è invece una memoria della quale si fa uso per colmare il futuro. Questo si avverte con chiarezza nella sezione propria del ritorno all’isola, dove l’imperfetto del verbo (imperfetto come tempo verbale e imperfetto come imperfezione della parola-memoria) tira su dalla acque interiori certi grandi cetacei, certe navi ferme, certe febbri d’amore e malattia e sole. 
Chi scrive è ritornata nella stanza del sentimento, che viene detta spoglia, senza tende né specchi: tutto è un dato semplicemente nudo come nudo si presenta a noi l’amore, che ci vuole nudi – e sull’isola torna, insieme all’amore, il morso del ricordo della morte, della completa irragionevolezza della morte di chi aveva solo da vivere: un secondo corpo estraneo di ragazzo spinto dal mare e arrivato fino a noi dalla sua involontaria e casuale esposizione agli occhi di un poeta. Qui il ritmo della poesia segue il ritmo naturale di onda e respiro: si spezza e ricomincia, si spezza e ricomincia. Qui viene detto che le parole diventano simili al loro autore: il poeta plasma la lingua a propria somiglianza. Somiglianza del verbo all’uomo (all’uomo verbale), dunque, anziché dell’uomo al Verbo. La poesia di Daniela Attanasio descrive una cosmogonia rovesciata e piena di adesione alla vita, e lo fa così apertamente: se c’è un libro dei sogni nella / mia vita lasciatelo aperto al / rosso dei pomodori / rimasti a seccare sotto il sole / su tavole di legno. Diciamo allora che la poetessa rende le sue parole simili a se stessa dopo aver reso se stessa somigliante ai frutti della terra al sole. E così, attraverso se stessa, Attanasio cerca un verso che / sanguini fedeltà alla vita: descrive un cerchio di fedeltà, una fiducia. Della parola alla vita. Fedeltà, somiglianza. E soprattutto adesione a tutta la sorprendente bellezza del mondo, anche alla tempesta, che produce poesia feroce e materica e straordinaria e pesante e animata di vere e gravi masse corporali in sobbalzo.
La poesia raschia dentro come altrove raschiavano i freni dei tram le catene e l’aria metallica della piazza romana – ma è il solo raschio delicato che dà ragione alla vita dei poeti. Dopo la massa centrale dell’isola Attanasio, concluso il viaggio, ritorna alla finestra dalla quale è partita: per il momento si mischia al mondo solo con lo sguardo, colpita dalla rivelazione di qualcosa che covava da tempo: è finito l’amore, sono finite la ri-conoscenza e la similitudine. 
La sezione finale è un rapporto di perdite: questo secondo Tempo Presente abita la casa e la persona e il ricordo paradossale della propria morte e quello ahimé vero della morte di un’amica comune, la poetessa Paola (Febbraro), la cui madre si disfa delle poesie della propria figlia come del distillato del doloroso lavoro della carne della propria figlia. La consunzione della carne parallela alla consunzione delle parole. E poi vengono le parole brusche e bellissime, piene di sangue e di amorosa rabbia di Lei, la voce, febbrile unità in dialogo con Amelia Rosselli, la maestra di tutte. Questa ultima parte contiene la testimonianza struggente di chi ha conosciuto e amato e assistito a un imperdonabile declino, a un nuovo imperdonabiledisastro umano, come è detto per Paola Febbraro. Vengono alla mente le immagini di un martirio. Il dolore, il silenzio dell’amore e la conversione: ma a una preghiera di Madonna ai piedi della croce, di essere umano femmina che ha perduto la necessità di vivere. Ora che qualcosa di importante è andato perduto viene evidenziata la parola cuore: è su questa parola che si chiuderà il libro. Muscolo, certo, ma anche convenuta sede di amore. Per questi lutti e per tutto il viaggio precedente, Attanasio si mette a pregare, senza nemmeno avere messo a fuoco la forma angelica alla quale si rivolge: forse si tratta semplicemente di un cuore intatto, della sua bella e sana vitalità, forse dei suoi sottintesi legami. Certo è una forma costituita dal bisogno di chi la prega di trovare doverosa la propria vita. O forse chi prega chiede solo ciò che umanamente ricorda, chiede ancora la gioia come una sana abitudine
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