Cucchi Maurizio, La maschera ritratto (il manifesto, 15.3.11)
LA GIOIA FANCIULLESCA DI UN POETA EN PROSE
Notammo questa bella posizione di fiducia poetica en prose già nel romanzo precedente di Maurizio Cucchi, che rovesciava la conclusione di un dialogo con il padre dell’altro grande poeta e maestro Giovanni Raboni. In un testo dall’ironico titolo Risanamento, Raboni immaginava di rivolgersi a un padre già morto e commentava con lui la distruzione dei vecchi quartieri di Milano, rasi al suolo con la scusa della riqualificazione urbana – fenomeno equiparabile alla infelice e ambigua proposta di Alemanno, appena approvata dalla giunta capitolina, di demolire e ricostruire il quartiere romano di Tor Bella Monaca. Raboni immaginava di dire al padre che in scale, cortili e ballatoi non risiede il male: A me sembra che il male / non è mai nelle cose, gli direi. L’architettura non causa delinquenza, dice il poeta, riferendosi a quel preciso episodio storico e sociopolitico. E l’amico poeta Cucchi, a distanza di anni, posa su noi uno sguardo amplificato, che viene da una compassione filosofica e ontologica e ci dice che Il male è nelle cose, conducendo la descrizione tenera e crudele della immanenza del male, che è anche dentro gli uomini in quanto essi sono cose del mondo. Ma ovunque si sente già il perdono, si sente che Maurizio Cucchi ha una dolce fiducia nella bontà degli uomini, ha una confidenza fanciullesca con i suoi propri simili e col mondo, perché, per quanto descriva dettagliatamente il reale con tutti i suoi oggetti, i suoi paesaggi e tutti i fili d’erba, sotto le sue parole rimane un mistero, quel sentimento nuovo e indecifrabile dell’esistenza e a ben guardare, una irragionevole gioia sotterranea, una gioia fanciullesca. No, ragionevolissima: la gioia e la gratitudine di stare al mondo. Nonostante il dolore, nonostante il sentirsi talvolta “agghiacciati dalla consapevolezza” di dover morire. O, lo diciamo ancora, forse proprio per quello. Ecco che con La maschera ritratto siamo al fianco di un uomo e delle sue scoperte progressive sulla linea maschile dalla quale oscuramente discende e che contiene l’enigma di io, ritornato a sfogliare luoghi, case e paesaggi di cinquant’anni fa. È passato del tempo ma avvertiamo la stessa nitidezza sospesa. La narrazione è condotta quietamente (ricorrono parole come mite e mansueto) ma è attraversata e scossa da correnti sotterranee come febbri o terremoti. Inoltre, i diversi personaggi mettono in scena un ventaglio di età che copre quasi una vita intera, dalla timidezza preadolescenziale allo scarto lieve che non fa abitare completamente il corpo con agio allegro e salute e infine a un “corpo che il tempo ha rasserenato”. Romanzo “malinconico, e a volte tragico” questo, come la vita della madre del protagonista, ma pagine dove la tragedia viene anche detta con pudore, piene come sono di un sistematico e ostinato desiderio di vita, di un capillare assenso a questo mondo che pure ci raggiunge per intermittenze, in certe splendide giornate di sole e all’aperto, quando sentiamo che il mondo ritiene che noi lo riguardiamo, che siamo una sua meritevole, umile, infinitesima parte. In questo bel mondo di 140 pagine non sfugge il ritratto del cavallerizzo quindicenne, che osservando con minuzioso sguardo autocritico tutti i dettagli di una gara, manifesta “il rispetto umile per ogni minuzia che può portare in alto”. È esemplare la leggerezza con la quale, qui e altrove, Cucchi dice la sua sulla poesia. Come se nulla fosse, usando la maschera ritratto del suo protagonista.
E ancora avviene, andando avanti nel libro come nel vivere, la malinconia per una madre erosa dall’invecchiamento e per la quale si hanno tenerissime parole, tanto più tenere quanto più spazientite, e avviene la delusione di fronte ai luoghi della memoria che magari ci hanno ossessionati. Lei è sempre più minuta davanti a noi che siamo ancora eretti e i luoghi sono sempre più ristretti di come li ricordavamo. Con gli anni si acquisisce concretezza e anche i luoghi devono diventare esatti. Questo è crescere e diventare veri: un bel viaggio per liberarsi di identità presunte e quasi certamente indotte, per spogliarsi del proprio sé abituale e assecondare infine le somiglianze che la nostra carne dichiara. Come dire che si è portato fino a oggi sul volto la maschera ritratto ciascuno del suo idolo, mentre la nostra carne dichiarava da sempre adesione a quello che si credette di odiare ma che non venne mai respinto da tutto il proprio corpo. Questa evidenza ci fa ricominciare più veri, dalla voce del corpo, perché la cessazione di una identità – posticcia: che la maschera cada come cade un pure dolce inganno – lascia al corpo la spaesante euforia di rinascere con il proprio volto.
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