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Renda Marilena, Ruggine (Le voci della luna, 2012)

prefazione a Marilena Renda, Ruggine
Le voci della luna, 2012

IL VERO INDIZIO DI ESSERE VIVI (elogio della crepa risanata)

L’attributo è la crepa. Cominciamo col dire che un altro – l’attributo del quale è la crepa – esorcizza e cicatrizza la nostra: crepa, varco, faglia o ruggine, quanto lavora in noi per sottrazione, al contrario del lievito amoroso che ci espande.

Dov’è la sintesi di un terremoto? Nella dedicazione a un altro che ha avuto cura di noi, dunque in una reciproca dedica. Il terremoto è vero, intendiamoci, si tratta del disastro del Belice del 1968 e di fronte a tanta sciagura Marilena Renda appoggia le proprie parole a cinque belle immagini e ad alcune interviste trascritte in forma orale, perché, per dire tanto, l’autrice sente il bisogno onestissimo di usare tutti i sensi del discorso: vista, udito e poesia – mista a calate dialettali dell’italiano – che è il sovrasenso, l’oltresuono e la sovrabbondanza di tutti i discorsi. Le foto invece sono immagini di resti tranne una, perché la terra si apre continuamente quando il Dio / del roveto e della parasia viene di notte / a donare il suo dono di zolfo.

La prima parte del libro, detta Uno, è un Libro dei Nomi, un libro pieno di persone e dei relativi corpi e nomi, perché ogni nome va ricordato e specificato a se stessi. Verrà detto più oltre C’è una follia che invita / a portare se stessi al di là del proprio nome e invece c’è bisogno di restare “in sé”, nel cerchio di gesso almeno del nome. Viene alla mente che i corpi umani altro non sono che curve provvisorie dell’ordine spaziotemporale.

Dice il vecchio pastore che siccome rocce enormi cadevano intorno e si vedevano andare a spasso le pietre campamu picchì appimu a campari. Un ni capitau nenti picchì unappimu a moriri, (noi siamo rimasti in vita perché così doveva essere. Non ci è successo niente perché si vede che non dovevamo morire) cioè esprime una ulteriore altezza detta destino, la stessa che ha formato quella mortale rottura dei fili che legavano / tra sé e sé le zolle, le erbe, i capillari del suolo e i successivi 12 anni di vita nelle baracche con le pareti di faesite (masonite, quel sottilissimo legno pressato con colle che serve da parete di fondo degli armadi economici) dove sentivi anche respirare il vicino.

Comincia la metafora della terra sfondata da una guerra: un  terremoto-guerra, guerra nucleare – e Gibilterra è il nome poetico di Gibellina. Perché Renda chiama Gibellina Gibilterra, assonanza a parte? Cosa è Gibilterra se non una terra straniera su una lingua d’acqua fra continenti, un’area di instabilità tra le convinte convenzioni della terraferma, un’antica colonna d’Ercole, la sfida verso una conoscenza proibita? Dunque questa vita terremotata che sale alla bocca di una poetessa è forse anche metafora di una condizione umana dove il rischio, lo slittamento di piastre geologiche interiori, l’abbandono delle certezze borghesi sono semi anche generosi di un nuovo mondo, cioè di un nuovo modo di percorrere il mondo; dove i segni di morte, come dice benissimo Anedda nella prefazione all’ultimo Benedetti, si convertono in informazione di vita.

Le ondate distruttive si susseguono, certo, e certo vengono descritte una per una: sono cinque successive demolizioni e poi inizia un respiro da Genesi post-atomica Il primo giorno c’è un sole piccolo che illumina / ciò che rimane del nulla, e il nulla non ha fretta, inizia la consueta conta dei resti: La cosa-madre è un’ostia lasciata digerire ai cani, le membra sono anch’esse stoffa che non regge e nemmeno le cose dimenticano quando erano vive.

Ma ecco cominciare, in prosa, il racconto “in chiaro” della devastazione: il disordine sociale causato dal terremoto conduce a una tanto imprevista quanto improvvisa emancipazione femminile e forse i genitori divennero indulgenti per la gioia semplice e viscerale che i figli e le figlie fossero ancora vivi e dunque vita sia, e che sia gioia!

Le pagine più care sono quelle dei reperti personali e industriali, ovvero dove si dipana la descrizione della vita nella baraccopoli con quelle pareti già dette di materiali incomprensibili e cancerogeni, impastati di fibre d’amianto. La vicinanza forzata delle baracche, tra esseri umani tra di loro e tra gli esseri umani e gli animali, è descritta nella bellissima Le baracche sono case dove crescono gli spiriti [42]. Indimenticabile la bambina nella sua cella-bozzolo di amianto con gli occhi come fibre cancerose con un nome da scheggia planetaria: crisoliti.

In queste pagine circola un sentimento zingaresco di libertà bella e naturale: file di panni stesi, gechi e cani a passeggio negli ambienti domestici: una vita borghese sovvertita e che a sua volta diviene carica di gioiosa eversione, specie nei bambini come era bambina Marilena Renda in quegli anni. Dunque l’autrice ci sta dicendo molto di sé e delle radici della sua poesia, spesso così fiabesca e così popolata da animali e iperspazi.

Dice lei: se vogliono tornare, / dovranno fabbricare la strada del tornare: siamo in una atmosfera di archeologia interplanetaria: la città devastata – che dalla baraccopoli si vede e che viene esplorata – forma nell’anima dei senza-casa il suo doppio immaginario cosmico. Ma si sente vivissimo il rovescio di questo spiazzamento creativo: nella paura dei morti, nel terrore di indossarne i vestiti, di venire agguantati dalle mani dei morti che presto rivivranno in una vera atmosfera da fine del mondo, con il fiato e la stregoneria del bosco che pesa addosso, proprio sul tetto di lamiera della pseudocasa tanto è circostante.

Si immaginano questi paesi con le viscere esposte e le scorribande dei bambini tra le rovine e i fantasmi delle case abbandonate: chi di noi non ha ricercato quella fecondissima paura nella sua infanzia? Ed è proprio, io credo, da quello scatenamento di immaginazioni macabre e fervorosissime che germina la poesia. Perché presto – in alcuni – dal cuore nero della paura viene una vicinanza inquieta, una identificazione, la contiguità a un’ombra, quello schietto stare sotto lo spacco dei tetti con gli occhi andati verso uno spazio cosmico dove siamo noi stessi quei morti, come in The Others, o dove “essi” rischiano ancora la vita, nel senso che rischiano di essere ancora una volta vivi. E presto! E chi sa se per amore o per invidia di noi. Perché nell’esistenza qui descritta il confine tra dentro e fuori, tra morte e vita, è labile, è segnato per terra con il gesso come nei riti magici. Per questo Marilena Renda comincia con il fare tutti i nomi.

Ma i bambini possono essere tenuti solo da lacci di terrore all’interno di spazi circoscritti: se sono liberi e sicuri scappano fuori vociando come cose da nulla, come pula e rondini.

Qui e là, nel senso anche semantico crepato dalla falla di questa sovra realtà, che Renda è stata abituata a vivere più che a immaginare (il tetto delle cose comuni ha avuto dalle origini della sua vita uno squarcio verso il fuori dal comune che però forma una comunità maggiore), ci sono piccole e rapide cose vere: gli altari dei topi sotto / i muscoli del travertino. Si sente tutto il peso dell’apparizione di questi fenomeni reali che sono mosche, lucertole, pane e paura, ma subito nella realtà s’infiltra il filo d’aria del fantastico: ecco il gatto e la volpe, che saranno magari anche i veri gatto e volpe, ma come non pensare ai furfanteschi personaggi che gabbano l’innocenza di Pinocchio?

In Ruggine è appunto sempre così: Marilena Renda è tornata a casa, è tornata bambina per raccontarci quello che ha vissuto da bambina, lei è ricominciata, è rientrata nel cerchio magico del suo io di allora, nella precarietà della sua casa che pure dovette essere casa. Casa, uomo e bambina di latta. Corpi formati dal luogo, o meglio che diventano il non-luogo che abitano.

La descrizione del disastro si rovescia di continuo nel suo doppio fiabesco ma verso la conclusione del libro si infoltisce la presenza di scatti fotografici e si chiama Gibellina Gibellina (pane al pane!): sebbene obliquamente, usando le parole di Schifano, appare un lampo di Gibellina. E insieme all’apparire di questa realtà finalmente dicibile e dunque sopportabile, appare la sua proposizione futura, la totipotenza di queste cellule di ricostruzione ancora larvali: la descrizione di una grande comunità in movimento, di una mescolanza di vite che divengono domestiche e care le une alle altre e che lottano insieme per un’utopia, per un futuro, e che insieme hanno dentro la grande nostalgia per la cosa perduta, quella che tutti gli esseri umani hanno e che ci spinge a immaginare il Paradiso e il mondo delle idee e che nel caso dei terremotati si formalizza nelle vere vite e nelle vere case che si sono malamente interrotte.

Mi sento abbastanza a mio agio in questo libro da permettermi una brevissima digressione personale evocatami da una delle interviste contenute nel libro, nella quale parla un artista che crea opere ingigantendo i dettagli dei segni dei cingoli nelle cave di sabbia: conservo da anni sulla mia scrivania un bullone che raccolsi da un cimitero di polveri ferrose durante una visita alla Italsider di Bagnoli, fabbrica abbandonata e colma di limature di lavorazione, binari mozzi e scheletri industriali: su quel bullone è poggiata la medaglietta di una Madonna in estasi che trovai nella tasca di un jeans acquistato poco tempo dopo a Porta Portese: questi sono gli altari personali, ovvero quelli che uniscono ai nostri, storie e destini di altri, come avviene dalla prima all’ultima pagina di questo libro-altare. Alla famiglia di Marilena Renda venne assegnata la casa quando lei aveva 3 anni. Dunque che cosa cerca la poetessa frugando in quelle macerie alla quali è provvisoriamente appartenuta? E perché salta, da una pagina all’altra, da Lewis Carrol a Celan e chiama Gibilterra addirittura rosa di nessuno? Ecco perché: nessuno può restituire ciò che un giorno / fu sottratto per colpa di nessuno. Eccola dunque a dover fare i conti con un olocausto senza colpevoli, dove la solitudine è ancora più totale perché non si ha nessuno contro il quale dirigere le cannonate della propria rabbia. Siamo dentro un dolore e basta.

Dunque anche Marilena Renda costruisce il suo doloroso altare laico di parole e insieme la traccia favolosa di mollichelle di parole per ritrovare la strada verso una casa vivibile posata su un suolo dove sono consolati i fantasmi (fantasmi molto materici, mica saggi ectoplasmi!: così è stata immaginata la terra dopo lo schiudersi del Verbo per bocca di madre) della loro rabbia o meglio dell’invidia dei morti che i sopravissuti si sentono addosso: noi siamo stati fatti per tornare dove la terra è terra anche se ha tremato una volta.

Marilena cerca una soluzione, una soluzione chimica come si dissolve il sale di un pianto collettivo in un’acqua più grande di noi. La soluzione di questo dolore senza colpevoli è sciogliersi in un territorio di probabilità e affacciarsi interi come il ramo del fico dall’apertura fatta dalla ruggine nel nostro cuore affinché il cuore spezzandosi ci mostri sì di essere esistito ma ci mostri soprattutto la sua attuale paradossale interezza: sappiamo che dove l’osso calcifica, dove la cicatrice cicatrizza, quella è la parte più resistente di noi, quella che dà il vero indizio della capacità di sopportazione, della vitalità di un organismo che nonostante tutto ha perdonato – sì, anche con pena – a se stesso e ai suoi morti ed è rimasto qui, è rimasto vivo e, soprattutto, è rimasto un insieme, un “noi”, è rimasto comune.

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