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Moscè Alessandro (7-8.12)

ALESSANDRO MOSCÈ, Suite per Pierino
a cura di Maria Grazia Calandrone
su “Poesia” n. 273, luglio/agosto 2012

Questo di Alessandro Moscè è un requiem pieno del grande e pudico amore detto amicizia: nei confronti di uno tra gli ultimi della terra, un uomo che sostituì con Dio e la compagnia bella dei santi l’amore di una madre che lo respinse; uno col nome da barzelletta, che mai conobbe donna e si spense in una casa di riposo lasciando nel chiostro altrettanti mozziconi e un luccichio da interpretare – di lacrime o follia – nello sguardo dell’amico poeta. L’io narrante Moscè si va sdoppiando come una radice assai profonda nel noi dell’amicizia, nella diade consolante e affettuosa che, ripetendo insieme certi gesti divenuti consueti, dimentica in silenzio e senza smancerie un irrimarginabile abbandono. Dietro l’apparente domesticità delle piccole risa e delle chiacchiere, si apre la testardaggine infinita della immaginazione umana, la solida volontà di sopravvivenza di chi si oppone a una vertiginosa solitudine interna inventando una legione di santi e madonne protettrici. La multicolore guarnigione dei santi sta schierata a custodia del vuoto delle così dette anime semplici, trasforma la voragine di tutti – la trasforma davvero – nello spiraglio dal quale soffia la voce dei morti, che a loro volta fanno una sorridente, amorosa e severa compagnia. La scena di tanta fiducia serena ci consola e ogni volta riporta con sé lo spettacolo dolce dell’infanzia: in tutta la suite (sequenza, con-seguenza) è evidente come Moscè attinga alla fonte del riso spirituale del suo amico. Il poeta descrive con dettagliato amore l’ostinazione della ingenuità, quella gioiosa possibilità di trasfigurare il dolore, personale o del mondo, nella speranza ottusa e benedetta, nella facoltà di trascurare l’incidente del reale non accorgendosi nemmeno del rifiuto continuo della bella Agnese, rivolgendole anzi sempre la stessa inutile battuta su Karol Wojtyla, commovente per quanto è fuori luogo e per come descriva con esattezza crudele l’immaginario di un ex ragazzino abbandonato che ha bisogno di tematizzare con grandi eroi dalle mani giunte la sua costellazione di affetti. Moscè sta descrivendo un salutare idiota dostoevskiano, una creatura che emana la salvazione perfetta del trascendere, una sua radiazione effusiva di bontà ciecamente fidente. I numerosi dettagli quotidiani – ciabatte, bicchieri, vestaglia e mozziconi – ci aiutano a trascurare l’ipotesi che Moscè stia tracciando con l’oro le qualità emblematiche e astratte di un’icona. Tanto più l’introitus del letto vacante. Anzi, come ogni morte che si è abbattuta sull’umano, anche questa porta con sé le consuete domande sulla morte: quale sia la misura che riusciamo davvero a colmare con la memoria, cosa sia veramente sepolto nei sepolcri foscoliani. L’amico dal corpo deforme e col nome dai ridicoli echi elementari, il mattacchione che parlava coi morti e coi santi del paradiso (stabilendo mirabolanti contatti attraverso le antenne televisive), ha lasciato lo spirare di un vuoto che non si colma con la vista pietosa della pietra messa sopra il suo corpo: qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso / che distingua le mie dalle infinite / ossa che in terra e in mar semina morte? Moscè non va a trovare l’amico al cimitero, lo cerca altrove: Celeste è questa / corrispondenza d’amorosi sensi, / celeste dote è negli umani; e spesso /  per lei si vive con l’amico estinto / e l’estinto con noi. Dunque siamo d’accordo: il corpo che si strugge sotto la terra non contiene più il nostro amico. Lo contiene la nostra memoria, lo conterranno anche le parole che verranno parlate in memoria di lui. Ma soprattutto lo contiene la nostra vita, che prolunga nel tempo l’esempio lasciato, la sua lezione, il sentimento seminale della sua vita. Ecco infatti la mimesi del poeta che attacca il canto di chi è rimasto solo, ecco la sua volontà – esplicitata – di sovrapporsi all’attitudine dell’amico scomparso, lo sforzo silenzioso di trovare la stessa fede di lui nel contatto coi morti, così da continuare con lui, adesso, il discorso momentaneamente interrotto dalla morte – o trapasso. Ora che tu sei passato di là io mi trasformo in te che parlavi con chi era già morto quando tu eri vivo.

Il sorriso da matto di Pierino sta sbocciando sulla bocca di Alessandro. Attraverso la bocca di Alessandro la felicità di Pierino torna parola. Non possiamo aspettarci di più da un amico, non più del dono di questa reciproca, infinitesima immortalità.

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