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in “Amarsi a Roma” (Ponte Sisto, 2009)

Amarsi a Roma, guida per cuori sbandati
a cura di Roberto Carvelli
Ponte Sisto, 2009

Molta mia vita sul Tevere
intervista di Roberto Carvelli

Immagina Roma come un corpo…e prova a disegnarlo con i quartieri?

Il Tevere è l’intestino, che tutto digerisce nelle sue anse e nei suoi tratti aperti: detriti, tronchi animali e vegetali – e produce alghe, schiume e, nonostante tutto, quell’odore di fresco che nelle sere estive lega l’acqua alla storia passata dall’inizio del fiume su quell’acqua. Roma ha un cuore oscuro e pieno di rovine, di animali randagi e angeli di pietra: il torace con le derive venose sta nei  vicoli del centro storico, e dirama un sistema circolatorio fino ai gangli nervosi periferici: Pigneto, Garbatella, San Giovanni. Tutto intorno ci sono le epidermidi, che sono le aree iperattive e sensibili dei centri commerciali, se vogliamo delimitare il corpo di Roma alla sua struttura urbana e immaginarlo immerso nel suo anello di verde oltre l’anello formicolante del Raccordo. In certe zone questo corpo urbano è addensato in quartieri-gioiello (penso ad esempio allo smeraldo puro del Coppedè) in altre ha delle protesi astratte, senza tempo né luogo (penso agli zittissimi quartieri residenziali dell’Olgiata o ai viali dechirichiani della città-R.A.I.) mentre altrove il suo secolare immaginario riesce a travestirla da superba signora nordeuropea e allora incassa gli animali e i sacerdotes dell’Ara Pacis in una abbagliante sovrastruttura di cemento e vetro, ma la sostanza nuda del suo corpo è un agglomerato di rioni che tracimano il disordine giubilante e nero della vita.

Tu vai spesso in campagna (o andavi) è una bella abitudine un po’ straniante…come ti appare Roma lasciandola o tornandoci dopo l’orto e il silenzio?

Quando si torna da luoghi dove lo spazio è aperto e dove le esistenze non sono sovrapposte come nei condomini si ricorda che la verticalità murata delle città è cosa contro natura. La campagna ci fa il dono di rimetterci nella orizzontalità della terra. La prima volta che ho portato la mia bambina in campagna aveva tre mesi. L’incontro tra i suoi occhi e il cielo non delimitato ha prodotto un’espressione (durevole, riproponibile) di incanto, ammirazione e sgomento. In città la potenzialità dello sguardo è continuamente mutilata, l’occhio non arriva ad esprimere la sua passione per la profondità. Però nelle città ci sono i cinema, i teatri, le sale da concerto, ovvero cose necessarie come l’ampiezza del cielo.

Da mamma per la seconda volta cosa pensi di quell’adagio un po’ clichè che “i figli meglio farli crescere fuori che a Roma”?

I figli è meglio farli crescere lontani dal disamore e dai pregiudizi che stanno attaccati alla gonnella di matrigna-paura. Nella città, che è tanta e sovraffollata, c’è più mancanza di attenzione e libertà di movimento (nei “fuori” i bambini possono ancora trasformare le strade in campi lineari da calcio come noi facevamo da piccoli) ma il vantaggio di Roma oggi è che ci si può incontrare tutto il mondo, è una città che a dispetto di tutti i soprassalti reazionari ha cominciato il difficile cammino della interazione tra culture e questo è un dono impagabile per i bambini che vivranno nel prossimo, futuro.

Quali i luoghi di Roma a cui se più affezionata sentimentalmente? Luoghi dell’amore maturo e/o luoghi della tenerezza infantile?

Curiosa e giusta definizione essere affezionata “sentimentalmente”, perché sottintende la variante di un affetto che non sia un derivato dei sentimenti ma che sia passato attraverso, per esempio, la conoscenza. Ma parliamo d’amore e, così facendo, ritorniamo sul Tevere: su quel fiume si sono svolti molti degli snodi che hanno fatto con la loro realtà la vita che convenzionalmente dico mia. Baci, sgommate rabbiose, abbandoni ridicoli o mortali, nascite. Del tutto involontariamente, molto della mia vita è avvenuto sul fiume, fino alla scelta volontaria di far nascere tra quelle acque che molti anni fa presero il corpo di mia madre, la figlia femmina Anna. Arturo invece venne dato alla luce della pineta, anni prima, perché il maschile ha la mobilità dei rami.

Nella tua poesia i luoghi sono spesso trasfigurati (a parte il Forlanini che è riconoscibile…perché?). Come lavorano in te gli spazi nella loro concretezza e in particolare quelli di Roma?

Immaginiamo la poesia per quello che è, ovvero un corpo materiale fatto di aria in movimento. Il linguaggio porta dove vuole, non ci può essere progetto, ogni volta sono scossoni di montagne russe verso un’unica meta amorosa. Il corpo poetico appoggia i piedi sugli oggetti veri, ma il loro nome passa attraverso la struttura corporea e psichica della persona che li pronuncia, passa attraverso la sua gola, che si rende il più possibile larga, universale – ma la cosa è la Cosa e il nome è il Nome. Non m’interessa compiere una mimesi della realtà, m’interessa assumere ogni realtà verso il massimo denominatore comune, dilatare quel corpo per quanto è possibile ad accogliere il dicibile del creato nelle sue somiglianze (che essendo tali sono appunto consonanze amorose) macro e microscopiche.

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