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Antonioni Michelangelo, Identificazione di una donna (Rifrazioni, 9.12)

PER LASCIARE L’AMORE ESSERE NIENTE

Il corpo è bello e semplice come un albero. Quando è al sole gioisce come un albero. Sarebbe così semplice essere felici. Basterebbe guardare. Eppure.

Sullo scarto doloroso e a tratti incomprensibile tra natura arborea e amore umano scivolano l’acqua e la nebbia di Identificazione di una donna di Antonioni.

Useremo come manuale di istruzioni per la lettura di “questo” Antonioni lo splendido Fondamenta degli incurabili di Iosif Brodskij, 51 parti di prosa dedicate a Venezia. Presto sapremo il perché. Intanto, godiamoci queste prime righe di sempre esuberante parlar d’amore. Perché l’amore è un franco fenomeno di dislocazione delle nostre abitudini in un cielo senza segnali, quasi completamente bianco, al quale occorre dire idiotamente sì, non domandare niente: vi affiora solo il volto dell’amato. Nel film lo slittamento è approfondito dal lieve accento cubano di Tomas Milian/Niccolò. In amore occorre guardare l’altro – qui l’altro è una magnificente Daniela Silverio/Maria Vittoria – come una divinità primordiale che per ragioni a noi sconosciute si è infilata nel corpo tutta la nostra vita e soprattutto la nostra maraviglia, il nostro rimanere davanti a lei fermi a nostra insaputa come idoli. Il vuoto che ha preceduto il tuo corpo ora ha una sua incarnazione commossa, la solitudine che ti ha preceduta ha formato un serio lavoro manuale da compiere sopra e dentro il tuo corpo, che porta uno stemma di stupore sulla fronte, mentre affonda – continuamente solo davanti a me – nell’inspiegabile che avviene nelle profondità della tua carne. E io, Maria Vittoria, ricambio chi mi ha svelato il volto della mia stessa gratitudine. Il tuo corpo è stato definito, realizzato e circoscritto dal silenzio del mio amore. Qui c’è tutta la generosità dei fatti, una necessità buona. Io sono grata alla tua fermezza di idolo. Mentre il vuoto che viene valicato sul corpo di Maria Vittoria è un vuoto astrale: sono le piante dei piedi, i fari delle macchine, i segnali che vengono perduti, il vuoto urbano quando le leggi della natura non contano. Eccolo, Iosif Brodskij: l’amore è superiore, anch’esso è più grande di chi ama. L’oggetto alieno dell’amore immaginiamo sia anche rappresentato dalla formazione anomala sul ramo del pino davanti alla casa di Niccolò – che non è nido né alcuna altra cosa riconoscibile. Ma tra uomini e donne non funziona così. Per lo meno, non solo. A un tratto siamo nel deserto bianco di una nebbia boschiva, luogo popolato da abitatori traslucenti, ovattati, inenarrabili; da pericoli oscuri riassunti nell’incombere di una rapina. Ora stiamo scappando da un persecutore – perché, nel film, la metafora del pericolo chiuso come un uovo in ogni amore, la scoperta paurosa del pianeta-altro – con tutta la sua rete di relazioni fino a un momento fa sconosciute – viene coagulata nella vera persecuzione da parte di un rivale. Dunque la coppia intraprende il suo viaggio nella nebbia per raggiungere la casa comune, che però è una casa sul vuoto, vinta dal tempo che si è scavato i suoi canali sotto le fondamenta – ormai incurabili – della relazione, con i suoi abitatori selvaggi come uccelli: vicini e irraggiungibili.

Se scappiamo l’amore è perduto.

La nebbia nella quale si confonde la coppia – ora uno non riconosce l’altra ed è perseguitato dai propri sospetti – non somiglia alla nebbia onirica della Elegia orientale di Sokurov, dove ci si incammina a ritroso nei sogni della notte e si ritrova la casa amata della propria infanzia. Questa è una nebbia piena di inquietudine, di passi di sconosciuti e di notizie fosche, è una nebbia dove ci si è smarriti gravemente, un ottundimento rabbioso. Torniamo a Brodskij, che scrive della nebbia veneziana dove l’alto e il basso si scambiano posto (quanto appare appropriato!: qui la bassa, terrestre, psicologica paura sta vincendo su Eros) ma che soprattutto cancella tutto ciò che abbia forma. In Identificazione di una donna Milian/Niccolò è un regista cinematografico che sta cercando il volto ideale della incarnazione di un sentimento che abbia forme femminili in un mondo sempre più impenetrabile, che cambia mentre noi ci interroghiamo sulla sua essenza. Quanto veridicamente la nebbia di Brodskij che azzera la forma è quella che in Antonioni deforma i sentimenti: il tunnel della crisi e della perdita. Lei adesso è tutta esplicita, gli dice: “ho paura che tu rovini la mia vita”, poco prima di un ultimo guizzo di gioia, di una estrema manifestazione di fiducia: ancora in questa cecità, in questo ottuso rumore del cuore, il sesso viene dato come dialogo. Questo congiungimento a cose fatte porta ancora la sua gioia pulita, la sua riconoscenza, una bianca e gioiosa esposizione infantile (Bataille: la soddisfazione sessuale è come il ridere – o il comico – in rapporto con l’ingenuità e la deliziosa assurdità dell’infanzia). Eppure anch’essi, anche Maria Vittoria e Niccolò e la loro gioia amorosa, come i malati di Antonella Anedda, sono marea che si placa, vicinissimi al nodo che l’acqua finalmente distende, ormai così vicini a Le lacrime di Eros di Bataille: Parlare dell’erotismo significa parlare da amante – felice o infelice, al tempo stesso felice, infelice – della vita umana. Significa parlare come il santo parlerebbe di Dio – se potesse coglierne, al tempo stesso, lo splendore inintelligibile e l’assenza, e, nell’assenza, la cieca crudeltà. Perché infine questo amore – incarnato, per lo sguardo virile e bello di Milian, in una femmina fluida e mutevole – si sottrae. E, salpando a tentoni dalla sua nebbia rancorosa e terminale, Niccolò approda nella vita di un’altra donna, Ida/Christine Boisson, che non porta ebbrezza: una donna terrestre, per dirla con Marina Cvetaeva. Volevo che il mio amore non finisse – scrive Anedda – che resistesse intero – in disaccordo / perfino col ricordo e ignorasse il corpo / che da me si scostava. Forse l’amore di Niccolò, quell’amore più grande della sua psicologia umana, quella entità con il nome di un dio che gli ha svelato il suo stesso volto, è ancora insediato come una macchia d’oro nel suo sguardo, se egli ancora cerca di ripetere il miracolo umano. Ma ecco il paradosso, la vera crudeltà di Antonioni: tanto Maria Vittoria era l’opposto di Niccolò – lei aristocratica, scivolosa e attratta (anche) dalle donne – tanto il pensiero di Ida pare essere un inno alla natura semplice di lui. Lei sembrerebbe la risposta ideale: sotto la casa di Ida anzi che gli iniqui e inafferrabili volatili di Maria Vittoria c’è il solido spargimento di cavalli di prato che Ida vuole ci sia: “Io – dice Ida – sono d’accordo su tutto quello che mi capita”. Eppure. Ida per Niccolò non rappresenta mistero. Ida è cosa di terra e la terra è colei che non basta a chi “indaga”. L’amore non è altro che mistero. Ora Ida e Niccolò sono nel vuoto di una laguna. Ora il deserto è amaro e traboccante d’acqua, ha il colore invernale dell’acqua aperta appena fuori dall’enigma terrestre di Venezia (non è più il deserto rosso dei fumi industriali, dei conglomerati di tubature e delle discariche fumanti dei primi anni Sessanta: un primo vasto tradimento della natura è già stato digerito dal nostro inarrestabile adeguamento psicobiologico), ora siamo in un piattume d’acqua grigioazzurra, in una tetra vastità interiore, la piccola estensione dell’infinito possibile in terra. Ed ecco, finalmente dal vivo, la Venezia di Brodskij: acqua è uguale a tempo, e l’acqua offre alla bellezza il suo doppio. Queste parole furono scritte nel 1989 e non posso non usarle come chiosa d’autore alla soffocante, agorafobica scena lagunare girata da Antonioni nel 1982: qui siamo nella replica terrestre della bellezza divina dell’amore, siamo nel vuoto fitto della realtà. Lo dice proprio adesso, Niccolò: noi immaginiamo sempre la felicità dove non siamo. “Qui” è “dopo” (acqua è uguale a tempo) che è avvenuto ogni rimpianto, è dove l’uomo non cede all’evidenza della sua solitudine e, quando cederà – perché Ida è talmente intrisa di realtà che sta già portando avanti una gravidanza – sarà per fissare direttamente il Sole, perché il corpo-sole è perduto ed è inutile rattopparne l’immediata e cocente mancanza con sempre nuovi corpi terrestri. Maria Vittoria resta l’inconoscibile dell’amore. Il suo dono. Il dono divino che crudelmente e imprevedibilmente si sottrae e ci lascia da soli come bambini nell’aperto di una laguna, alla superficie della bellezza (e l’acqua offre alla bellezza il suo doppio) e, fallito il nostro ultimo tentativo con la realtà, ci lascia senza altra soluzione che affrontare direttamente la sorgente di luce, sperando che – come Il Sole-Hirohito di Sokurov – si arrenda anch’essa, ci si faccia umana. Ma il mistero rimanga, ci suggerisce invece l’alter-ego bambino di Antonioni alla fine. Certo, che l’uomo sondi tutte le leggi della distribuzione della materia. E dopo? Mistero sia l’amore e mistero restino i suoi simboli solari e l’identificazione non riesca – o sia esclusivamente negativa, montaliana: ciò che non siamo e ciò che non vogliamo. Niente altro che questo cercare, la creatura che dura nell’attesa, niente altro che questa creatura che fissa il sole e dura nell’attesa.

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