UNDICESIMO QUADERNO DI POESIA ITALIANA (il manifesto, 19.6.12)
Ogni antologia della contemporaneità restituisce un mondo dove si vive, visto dagli occhi di chi si prende la briga di far passare il mondo attraverso il setaccio del proprio corpo per mettere in fila, secondo un dettato musicale sempre più interno e irregolare, le pepite delle parole che restano fra i denti dopo che l’umore del mondo è stato filtrato, dopo che è finito il suo rumore. Canto-mondo ferito questo nostro, fratto, ma ricomposto da un incessante moto da luogo e verso luogo. Certo nel senso della poesia di viaggio, perché il pianeta che abitiamo è sempre più percorribile, miscelato e migrante, ma soprattutto: la voce dei sette parlanti della poesia (Yari Bernasconi, Azzurra D’Agostino, Fabio Donalisio, Vincenzo Frungillo, Eleonora Pinzuti, Marco Simonelli e Mariagiorgia Ulbar) e dei loro prefatori (Giancarlo Alfano, Rosaria Lo Russo, Paolo Morelli, Umberto Motta, Fabio Pusterla, Carla Vasio e Fabio Zinelli, che consegnano ciascuno un salvacondotto nei territori impervi della parola con un gesto di attentissima premura) raccolti nell’Undicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea, è unita dalla presa in carico di una coralità umana, subumana, superumana o parzialmente umana. Questa una prima dichiarazione facile, intorno all’evidenza collettiva del Quaderno – che verrà presentato domenica 24 nella Chiesa romanica di Santa Maria in Portonovo (Ancona) nell’ambito dell’ottimo festival La punta della lingua – che prosegue una tradizione ventennale di schedatura delle voci originali e inedite della poesia vivente. I Quaderni hanno sempre avuto il pregio di raccogliere contributi dai più disparati ambiti poetici, in cerca non del compiacimento del gusto dei curatori bensì della qualità poetica. Venga riconosciuto a Franco Buffoni (al quale la Mondadori ha appena reso l’omaggio di un Oscar) il grande merito della fatica, ma soprattutto dell’onestà del lavoro di selezione nella schiera ben nutrita dei giovani e baldi inediti italiani.
L’Undicesimo quaderno pare manifestare l’assunzione di una responsabilità da parte di detti poeti: potremmo dirlo il libro della vastità, la raccolta di un coro dalla vista alta e ampia e in taluni casi (D’Agostino, Frungillo) atemporale, in taluni altri (Bernasconi, Pinzuti, Simonelli) radente un hic et nunc fatto completamente nuovo e riscattato anzi da quella larghezza di veduta, infine rotta (Donalisio, Ulbar) dal singhiozzo reattivo della materia. Lo diremmo anche il libro della chiarità, poiché alle pagine della poesia viene qui data dai suoi autori una “trasparenza con oggetti”, che vogliamo leggere come una presa di coscienza etica, che valga a risanare ogni volta l’assenza che ci forma, per dirla con un verso di Frungillo. Intendiamo per assenza una nostra irrimarginata solitudine ontologica di mortali e il conseguente e ovvio desiderio, da parte di chi scrive, di non dilatare la propria e altrui area d’isolamento, ma di esprimere viceversa il bene di stare nelle cose del mondo, in contatto e a contatto con il popolo umano, pur coscienti di ognuna delle ferite. Possiamo dunque immaginare questo libro come un museo di vivi, dove ciascuna sala ha il nome di un autore: sentiamo così profonda l’omogeneità della struttura, pur nella differenza dei risultati che leggiamo nelle diverse sezioni, alle pareti delle sette sale del volume.
Abbiamo qui lo spazio per dei rapidi cenni: Bernasconi mette in pagina una vasta e tragica compassione per la maceria umanovegetale, producendo una narrazione apparentemente piana della sacra miseria delle cose, che non saranno perdonate, fino all’ustione terminale, materica e bruta, del vulcano indonesiano Merapi, zona di fuoco mortale dalla quale anche senza speranza comunque si fugge: appare sacro, sì, questo correre umano sebbene senza speranza; la scrittura appassionata della cvetaeviana D’Agostino colma lo sguardo di natura, di creature animali in un tempo sospeso, che talvolta richiede lo spazio e il luogo-emblema del dialetto: il particolare (la lingua del luogo) si distende nel canto della montagna, cava su dalle cave della montagna i sedimenti minusloquenti della storia, stratificata nella zolla enorme della roccia; il canto acido e ultraritmato di Donalisio è invece pieno dell’obliquo pudore della rivolta, di una malinconica ironia che tenderà i muscoli del viso fino all’urlo della redenzione, ora che abbiamo forza per il fatto primario della vita; Frungillo s’incarica a pieno petto del coro e della catastrofe, cerca di rimarginare gli opposti accostando a voce i lembi della ferita, l’assenza e la presenza soprattutto, sembra voler riformare una dispersa unità edenica attraverso la scommessa della parola, cosciente che siamo fatti di tradimento e però di voce; così gli studi di linguistica e letteratura sublimati in lirica sabiana di Eleonora Pinzuti, la sua cantata accorata e lieve, caproniana, per le cose perdute (l’ava e gli amori) sono un omaggio alla libertà fieramente incarnata da un amore e dalla sua caduta: la vertigine dell’amor perduto ci pone analiticamente sulle sue tracce, il rovello spicca un filo di luce tra le esperienze e, sopra tutto, ci immerge nella constatazione che il tempo non torna ma che almeno del nostro amore resti una mappa rudimentale: così, ci assumiamo il compito di trascriverne in favore di tutti la geografia privata, le ossessioni, i reati e i molti doni; altrettanto possiamo dire del sereniano posto di vacanza popolato dall’amore disperato e forte e corporale dei cari trans di Marco Simonelli, mappatura dolente e ironica e affettuosissima di un insieme di corpi esposti al centro del nostro sguardo, ciascuno nel suo vaso di solitudine deambulante e parlante; diversamente materica, di una materia irrorata, feroce e nativa, è la musica spontanea di Mariagiorgia Ulbar, che canta a voce bassa le ferite del mare o spezza la sua voce su una dantesca pietra calcinata, inciampa e si volta a segnalare l’inciampo, già quasi del tutto disinteressata alla propria ombra, ma già adombrata dal tunnel verso l’antimateria, dal buco nero della parola scritta che distoglie dal profumato bene delle acacie ma che permette forse di condividerlo e non dimenticarlo più.
Torniamo dunque a dirla tutta una poesia intelligente e cosciente: del peso umano e del tempo che questo peso abita e dove spende parole mai avulse. Torniamo a dirla poesia etica, densa e comunicante. Sembra che i poeti dicano sorridendo – cantando o discantando: siamo qui, diamo questa versione collettiva di un mondo comune, senza barriere e senza pregiudizi, fatto di storia e di similitudine: con l’ultrasuono, con il ronzio invisibile della poesia dentro il fogliame umano. Sembra che questi poeti stiano al mondo come il mondo sta al cuore effimero e immortale dei poeti, in un rapporto di reciprocità che speriamo non debba più interrompersi.
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