Frabotta Biancamaria, Da mani mortali (Fondazione Piazzolla, 30.11.12)
http://www.fondazionemarinopiazzolla.it/Calandrone_Frabotta_Da%20mani%20mortali.pdf
Se davvero esiste il dio laico e burlone dei poeti, questo certo ha nel cuore Biancamaria Frabotta, quando decide di elargirle titoli e versi come quelli che a sua volta lei inoltra ai lettori: la sua nuova opera è un volume d’impianto solidissimo, consegnato fin dal titolo dal basso della terra, in mani mortali altrettanto, per mezzo del viatico delle parole di Hannah Arendt. Il luogo di provenienza di quest’opera è una corporeità attiva e inscritta nella sua bolla temporale, che la definisce senza esaurirne l’emanazione di coscienza, una singolare capacità di osservazione in grado di muoversi avanti e indietro per il tempo e attraversare i regni vegetali e anche quello dei morti rimanendo sveglia. In principio la nostra carne ferma di osservatori, il nostro cuore lento, sono contrapposti al cantiere sempre aperto e vivo delle piante: siamo ammirati dal sangue esangue e silenzioso che le piante versano sul fango ribollente della terra e, osservandole, osserviamo a confronto il nostro difetto umano. Poiché siamo esseri verbali, scissi da una natura per la quale proviamo ammirazione e nostalgia, il nostro compito iniziale è l’allegria di nominare il mondo, cominciando dai nomi bellissimi delle sue piante. Ma improvvisamente appare – come improvvisa appariva a Caproni la fidanzata completamente morta – l’amica perduta, lentamente assorbita dalla morte sotto i nostri occhi come da una sabbia immobile, l’amata poetessa Giovanna Sicari, alla quale Frabotta rende qui il suo omaggio: alla creatura viva e di carne, confidente e maldicente e sofferente infine di un corpo solo come sono soli i corpi, ma terminale questo, abbandonato come il mare di sera, quando gli voltiamo le spalle per tornare nel conforto della vita domestica, al traffico sereno delle nostre stanze. La seconda emblematica coppia di amici che compare nel libro, dopo questa formata dalla stessa autrice con l’amica poetessa, è quella virile di Achille con Patroclo. Siamo sempre nella letteratura. Siamo sempre nell’invocazione: pensami – dice Giovanna ancora viva. Tu dormi Achille e a me non pensi, dice Patroclo morto all’amico che lo sogna. Ma ascoltiamo e impariamo ben presto che i morti desiderano che li assolviamo e li emancipiamo dal laccio della nostra nostalgia: Lasciami / andare oltre ciò che più non posso contenere: questa la supplica del morto Patroclo all’amico Achille, che si strugge in un dolore tempestoso e vendicativo.
Tutta la vita mortale è una lezione di perdita. L’addestramento materno, che arriverà alla fine di questo bel libro, è anche quello alla vita che invecchia e, in certi casi dolorosi, smarrisce la sua propria ragione d’essere vita. Ma sopra tutto bellissima splende la luna, nella sequenza delle poesie ispirate dalla luna, più che alla luna, tanta è in esse l’aderenza tra sostanza e forma: qui una luna esile e infinita e resistente come il nocciolo del trave balugina e schiara il cammino, fa luce sugli umani con una tenerezza nuova, che ha preso ad apparire in Frabotta fin da Gli eterni lavori– sezione di questo libro che già vide le stampe in forma autonoma presso San Marco dei Giustiniani – come se il chinarsi dell’autrice sulla terra vera, a contemplarne l’attività febbrile, muovesse in lei una compassione, una speranza d’essere infine collettiva. Insieme al brusio politico e polifunzionale dell’animale umano, ecco il brusio più sordo – calmo e incessante questo – della natura. Non si avverte però in questa poesia alcuna adesione o appartenenza al regno animale: quello di Frabotta resta lo sguardo separato e fondato, di una creatura fatta di pensiero che, dall’alto di una statura sicuramente eretta, sostiene lo sguardo – o l’assenza di sguardo – di un dio reticente e quasi infantile, di nessuna parola.
In questi testi la poetessa è riconoscibile e presente, a volte se ne leggono in controluce stralci e dettagli di vita biografica – ma, ovunque e comunque si muova, Frabotta assume la responsabilità intera del proprio sguardo umano, che è fatto di opinione e compassione (specialmente nei testi dedicati al crollo della Casa dello Studente de L’Aquila) e spesso riferisce la sua scrittura a una poesia già quasi diventata natura – o quanto meno archetipo, quando canta la Genova effusiva di Caproni o l’appassionata amicizia dei due uomini omerici. Lampeggia però in tutta la raccolta una disperata allegria – diversa per vitalismo dall’antecedente psicologico pasoliniano: dove Pasolini reagiva al suo presente con fiotti di nottambula energia e con una sua speciale febbricitazione intellettuale, Frabotta esprime una sorta di brio mozartiano, di malinconica coscienza liminare – tra serenità e scontento, quest’ultimo scisso a sua volta tra esistenziale e civile. Possiamo allora dire che, grazie all’opera di un’autrice che non teme di mettersi in gioco sulla pagina – scriviamo “in gioco” anziché “a nudo”, perché il pudore vigile della poesia di Biancamaria Frabotta ci ha sempre entusiasmati – ci è dato il raro dono di assistere all’evoluzione dettagliata di un’entità umana completa: poetica e pensante. Questo di Frabotta, oscillante tra invettiva e invito, sembra essere il libro della pace etica. Della pace civile, intelligente, umana, che segue allo spettacolo e all’analisi acuta d’ogni acuto dolore: anch’esso, per fortuna, come noi fugace.
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