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De Signoribus Evelina, Pronuncia d’inverno (25.2.10)

Il libro di Evelina De Signoribus comincia con la parola desolazione. Eppure no, Pronuncia d’inverno è un volume chiaro, casomai di disagio terrestre, questo sì, ma di una trasparenza consapevole e affermata da un apparente stile colloquiale, ma in effetti lavorato con una lingua estremamente avvertita.

Ci muoviamo da subito in un corale di creature che manifestano gesti e pensieri ma non hanno quasi corpo, sono trasumanate e assunte in una luce allegorica, in una mischia vivissima di visibili e invisibili dove non distinguo più i vivi dai morti, egualmente vociferanti.

Chi è Elsa, chi è Anna, chi è la signora di fronte, alla quale è dedicata la sezione dal titolo bellissimo appunto L’altare della signora di fronte? Chi sono questi portatori di destino un po’ miseri che si attraversano perché sono spalancati come piccole soglie su gesti all’apparenza quotidiani ma segnati da una inconsistenza, da una sottilissima inquietudine e fragilità? Troviamo, in questa giovane poetessa, la maturità di un sentimento già a posteriori, a volte quasi postumo: chi scrive guarda alle cose senza nessun altro intervento che non sia un’accoglienza precocemente materna, anche nei confronti degli avi, quando il mondo al condizionale, il binario parallelo alla vita evidente si manifesta attraverso il loro odore domestico. L’attitudine usa dei propri sensi e non è passiva e la poesia non è medianica, bensì contiene spostamenti ed è fatta da oggetti. La perizia sta tutta nel lasciare spiragli, negli interstizi di luce, negli spazi in sospeso tra le cose. Torna alla mente una delle più belle poesie di Per un secondo o un secolo di Cucchi: Attorno i vicini storpi che annusano, / sul portone il camion rosso dei pompieri / e le tue povere urla sulle scale, / mentre ti portano via seduta, / piccolo corpo dal viso stravolto, depresso, / che ogni tanto riesce a abbassarsi dolce / per dirmi: “Mi ricordo di lui, / così maschio e gentile, / mi ricordo di te, che volavi al laghetto / e alzavi le braccia, uccellino felice di vivere. / Io ti chiedo perdono, ma è andata così”.

La stessa fine meridiana, la stessa malinconia del ”a cose fatte”, le somme tirate dopo, nella vecchiezza che non chiede più nulla ma assume il suo proprio destino senza quasi più peso.

Ma, mentre in Cucchi i fatti sono i fatti, in De Signoribus si avverte uno slittamento millimetrico: gli oggetti sono sempre lievemente altro da sé: spunti, porticine o portali, cunicoli, deviazioni dello sguardo e, dietro lo sguardo, di un cuore semplice. Siamo in un mondo all’improvviso pronto a diventare un altro mondo, a mostrare la sua crepa, il sorriso del vivo che non è un sorriso ma il margine di accesso a una pregressa incolumità, perché di questo si tratta: Evelina De Signoribus ha nel cuore un mondo ancora intatto e sono in lei continui i gesti di compassione terrestre, venuti da un mondo prima del disincanto.

Altra protagonista non secondaria di questo giovane inverno è la casa, dalla soffitta alla cantina: il corpo vivo della casa esplorato nelle tubature grevi, nei suoi contenitori abbandonati, nei cavi conduttori, nei segreti allacciamenti, nel mobilio manifesto, nei cartoni, lacerti, nei dettagli dell’uso e del disuso, fin negli sgabuzzini.

Casa rifugio dal freddo esteriore e però casa che resiste alla nostra completa ispezione, casa inquieta ma senza dolore, una casa organica ma inerte, nella cantina della quale la specie umana si consegna alla polvere.

Rimane chiuso fuori il brusìo insidioso del prato.

Cosa stiamo denunciando dal principio infatti se non una separazione, una grave perdita di compassione e di sensitività? Cos’è tutto questo libro se non una dichiarazione di Resistenza? Di veglia, per meglio dire ancora: Per questo non dormo più e vi vengo a svegliare. Sono tempi, ci dice Evelina De Signoribus, nei quali bisogna tenere alta la guardia come sentinelle notturne, ci sono interni strapieni che bisogna setacciare con la cura che si deve alle cose comuni, voci domestiche delle quali sarebbe vivificante rintracciare gli echi.

Di sacro ci sono le mura, forti e consolidate, una sorta di perimetro di sicurezza fuori e dentro il quale tutto pullula e ci abitua al mestiere di vegliare, ci risolve a far entrare il caos di fuori e, se si riesce a infilarsi in un passaggio sconosciuto della giornata e ci si pone in una posizione propizia a un avvento, si cerca di pregare, poiché non si desidera nient’altro.

Nella sospensione del desiderio, dunque, in un canale del giorno, si rinviene questo bisbiglio quasi casuale, si aspetta che qualcosa avvenga – o ritorni. Non si può trascurare questo passaggio, né i due bellissimi versi poco distante: tu sei dove siedi come una bellezza scandita / in una crisi terrena. E io ti farei da scudo / forzando questo chiodo di tensione. Si sente la forza di queste parole, il sacrificio fiero della persona che è dietro le parole. E la paura che le fa scorrere il sangue.

La scrivente si offre quale risarcimento, assume aspetti da ultimo titano / pirata e sirena del suo vanto. Il corpo del poeta è un oggetto sensitivo inscritto (e forse scritto) in un mondo insensibile, un luogo di percezione, come dice bene Enrico Capodaglio nella sua bella introduzione: è diventata impresa da mistici abitare poeticamente la terra. C’è infatti quasi una santità in questo corpo mite che si espone ad assumere il mondo assumendo una forma materna e omnicomprensiva. C’è una strana, una quieta, una serenissima perfezione. Dunque Evelina De Signoribus fa poesia “civile” nel senso più nobile, custodendo i simboli e la segnaletica della memoria.

Inoltre Pronuncia d’inverno è anche un libro di ascendenza poetica “matrilineare”, in quanto poggia le persone in alcuni ambienti aneddiani: l’inverno stesso, la enumerazione degli oggetti, la tregua, il vivere occidentale, c’è la stessa malinconia serena e lo stesso offrirsi come parabola: parabola come antenna ricevente e parabola come racconto evangelico. “Io” mi uso per ricevere il mondo e restituisco in forma allegorica il tracciato di senso che ho ricevuto. Ma soprattutto parlo di cose vere. Parlo del richiamare quei gesti sbagliati e trasformarli, / renderli amore: questo è il desiderio, l’alchimia che si cerca – ma dove? Dapprima spinti nell’abbraccio umano, che ci restituisca il corpo o almeno l’impressione di identificarsi in un corpo che pare quasi morto per mancanza di nutrimento amoroso. Ma subito cerco di ripartire dai nomi delle cose certe. Ecco dove si trova la Casa.

Se ci vogliamo addentrare in un disvelamento arbitrario, diremmo quasi che la persona abbia edificato sacre mura, una pelle traslucida di parole e dentro porti un caos governabile – e dall’esterno alla semplicità del cuore lasci spiragliare il mistero serpeggiante, pullulante e struggente della natura. Quando è sopportabile.

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