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Baldi Massimo, Dopoguerra delle vertebre (2.1.09)

Massimo Baldi, Dopoguerra delle vertebre (I Quaderni del Battello Ebbro, 2008)

Noi in piedi rispetto alle rovine

Con il titolo Dopoguerra delle vertebre Massimo Baldi sceglie di cominciare a parlarci disarcionandoci subito dalla sella del senso comune e sceglie di prendere il suo primo fiato dalla grande carcassa spolpata del passato che da un certo punto campeggia nel libro con il suo portato di mistero, maceria e numerazione: una conta che cerca di elencare, ordinare, porre una ragionevolezza matematica sopra il silenzio e sopra le rovine.

Qualche cosa è già avvenuto, mentre noi ancora non eravamo qui, in questo libro-mondo, forse tutto. Entriamo.

Immediatamente incontriamo tre padri nella parola: Carifi, al quale il libro è dedicato, Benjamin con la sua sferzata antifascista e Celan con il suo disperato anelito a essere, pronunciato forse a nome dei suoi consimili braccati e forse a nome della specie umana: da parte dei non ancora nati al bene, da parte dei ridotti al silenzio per efferata mano umana. Lo sguardo dell’autore Baldi si avvicina e si allontana di continuo da un plurale che pare contenere uno strano genere disumano [Rallentano il passo / hanno rose bianche nelle mani / hanno volti illuminati], allarga il campo su una folla nebulosa che sta sotto uno zenith e lo stringe in zoomate improvvise sui dettagli di un corpo e di una stanza – ma visti con lo sguardo di un non-simile, di uno straniero, quasi in una conversione lirica e cristologica delle utopie di immortalità di Blade Runner [Ho visto gli umani convertirsi in cose / la donna stava stretta in un’insenatura della stanza / l’uomo, ugualmente stretto, nell’altra / il soffitto squarciato da una larga venatura; / il vino depositato si tramutò in sangue / il pane in corpo / il legno in calcinacci sgretolati / l’uomo e la donna in ceneri distanti / ho visto gli umani convertirsi in cose / le cose in selvaggina da sacrificio].

In queste parole c’è uno sguardo esule, androide, “umanoide”, come dice lo stesso Baldi a proposito di un crepuscolo, c’è una malinconia di esseri che osservano la specie e lo sguardo dell’autore, tranne alcune accensioni sui dettagli che dichiarano lampi di esistenza, sembra appartenere a questo genere di creatura vitrea e lontana.

L’ “armistizio” che avanzando vediamo apparire è l’amore, sebbene disamato, con la sua esperienza di perfezione e senso dato al mondo [Da lì in poi tutto è stato pienamente se stesso, / tutto portava il suo corpo / come una veste di lino], con i nomi femminili di un organismo pur destinato a sparire e alcune illuminanti parole pronunciate in “settembre”: “Io credo che le anime siano / occhi, e gli occhi / oggetti di uno sguardo immane”. Ora, entrati nella “foresta nera”, troviamo un io su semina e maceria – e “nutria” si nomina infine qui il poeta, nutria con anima primigenia “di ingorghi, ingranaggi, periferie domenicali”. Anche qui tutto è senza Dio (il sacro, se c’è, sta nella compassione dell’effimero), anche qui tutto è solo e mortale, tutto è postumo, anatomico e industriale, siamo nella archeologia semiviva della parola che nell’anima riscontra la meccanica e la matassa di valvole di uno stabilimento postpostmoderno nel vuoto urbano: tutto anche qui sospeso, “domenicale”. Siamo sempre un passo dopo l’umano – un passo dopo il linguaggio convenuto.

Abbiamo appreso molte lezioni per arrivare a parlare questa lingua esattissima, lezioni offerte (dalla poesia che ci ha preceduti) e inferte (senza che lo volessimo, dalla storia, che assumiamo come se fosse un valore nostro). In questo libro c’è una profonda adesione al dolore degli altri e le parole, che hanno attraversato tanta distanza, si accostano perché fra loro c’è una contrazione, una sorta di attrazione materiale – ma il tessuto semantico resta all’apparenza coerente, ovvero c’è un universo precostituito che come dentro un sogno ancora regge, le leggi che comunemente sostengono la frase vengono mantenute: così, sembra che tutto stia in piedi su un tessuto comune di erba (metaforica) ma in realtà non c’è terra dove tornare a posare, siamo immersi in una navigazione incessante, ovvero: siamo in moto tra provvisori ormeggi come piccole orbite dotate di autonomia e intelligenza. Il libro usa a piene mani del suo lettore come strumento di senso e come bussola, così come faceva Celan, che volta continuamente a sé la faccia del lettore per scrutarne l’anima e molto raramente lo lascia riposare nelle carezze liriche che vorrebbe ricevere anche l’amante più abituato ai viaggi intergalattici che si fanno scindendo le molecole della lingua.

Questo libro infatti è densissimo al pari di una stella collassata, le parole rimaste erano separate da vuoti e traiettorie ora implosi e alcuni nodi rimangono a stillare la loro luce nera: due tra le parole-chiave del libro sono semina e divisione con tutti i suoi sinonimi. La figura, il sorriso, il cranio, l’universo, fin dall’inizio del libro si presentano divisi e l’io è quello di un mezzo uomo che trova ogni tanto pace e spiegazione – se non proprio unità – in alcuni ponti celaniani, dove la spaccatura sembra diventare il solco dell’aratura che aspetta la semina.

Bene dunque suggerisce Mecacci nella sua bella postfazione: Celan è la guida magistrale di Baldi nel mondo della poesia e, pare, nel mondo “vero” che, come abbiamo detto, gode di una sua cerea qualità onirica: Celan è onnipresente, negli interstizi tra le parole e nei luoghi fisici che vengono visitati (la sua tomba, primo fra tutti a comparire, dove il poeta vivo con mani vive è accomunato al respiro avaro del morto dalla benedizione e dalla pietra). È la parola del poeta a guidarci nel mondo e a illuminarlo. E la poesia dice che siamo tutti, a ben vedere, in un “armistizio”, in una “tregua”, per usare la parola intuita da Antonella Anedda nelle sue notti di pace apparente. Le vertebre sono allora la struttura linguistica di un essere umano, la colonna che lo tiene eretto rispetto alla rovina. E allora la foresta e le avversità sono del linguaggio che non spiega più il mondo né tanto meno lo rinnova stillante sulla pagina, la “foresta nera” è quella dei segni d’inchiostro e dei malinconici elenchi di caduti e superstiti (boschi, nomi) e nulla veramente più esiste, caduto come un albero che rovina in pace il codice elementare della comunicazione tra gli umani.

Rimaniamo così sospesi alla fine del libro in una oscillazione acquatica sulla soglia-parola e aspettiamo che Baldi con il prossimo libro ci dica quale voce o quale nome siano emersi, se l’acqua-dopoguerra, livida e limacciosa e disabitata sia diventata o meno nel suo mondo di segni una pozza amniotica di senso, se la fratturata semina di sillabe sparsa per tutto questo libro assai bello sia confluita nella grande pace di un richiamo che è stato destinato dall’inizio dei tempi proprio a noi, se quell’unica nominata primavera abbia dato i suoi nomi, se la ruggine dei fucili e del marmo abbia iniziato a splendere e il canto sia diventato davvero e per sempre diga al non-senso, se quell’umano e quella vicinanza che si annunciano nell’ultima sezione per barbagli [Eppure c’era, non la vedesti, / la vita – quella nostra invisibile occasione] prenda corpo e sostanza o se almeno le cose che sono nulla e non sono dove sono vengono sostituite da qualcosa che non ci lasci con quest’amarezza di esuli a bagno nella splendida allucinazione mondana, perché qualcosa si capisce che ci salverà, qualcosa rimane aperto, qualcosa di vivo osa parole come la verità (trattino) il bene (trattino) il bello (trattino). Sono parole definitive, parole parlanti. La poesia a questo serve: a ridarci fiato nel momento esatto in cui ci rivela che stiamo soffocando. Baldi non ha paura di dirci che siamo soli e mortali, ma siamo tutti soli e mortali, dunque non siamo soli e non abbiamo nulla da nasconderci. Leggiamo ancora, dunque siamo vivi, non abbiamo nascosto le rovine.

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