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Cerutti Marocco Mariella, La devozione (il manifesto, 9.1.13)

Mariella Cerutti Marocco, La devozione e lo smarrimento, Oscar Mondadori 2012

Degli scomparsi restano i segni linguistici universali, i denominatori comuni della lingua, suggerisce Mario Santagostini nella bella introduzione all’opera di Mariella Cerutti Marocco, producendone la raffinata esegesi tutta tesa a rassegnarsi alla irreparabilità del passato – fino allo scarto finale, che è un inno alla musica della parola. Cominciamo dunque a cantare e, in una sorta di aerea pesca a strascico, intrappoliamo spiriti e spiritelli nella rete dei suoni. Talvolta nelle maglie della voce incappa una figura passata, una figura morta di noi. E veramente a mute apparizioni sembrano rivolgersi la devozione e lo smarrimento di Cerutti Marocco, titolo che è anche esatta descrizione di una disposizione dell’animo che si muove tra sopralluoghi nelle regioni ambigue dell’infanzia, casa immobile che procura il terrore e il piacere dei territori di oltreconfine, quando si è superato anche lo scandalo della disperazione – e una supplica ai morti, l’implicita eterna interrogazione sul loro – sul nostro, domani – ritorno. Non vediamo stagliarsi sulla pagina nitide evidenze creaturali, vediamo piuttosto una cronaca di dettagli osservati da una terza persona singolare, quasi straniera in terra terrestre ma non vera abitatrice del non-visibile. Solo nell’occhio della donna adulta che guarda le sue immagini di ragazzina in kilt l’io viene assunto – ma fuggevolmente, forse perché la giovinezza è inutile e meravigliosa, sì, ma rappresenta il magnete che attira il presente fino a un lampo di congiunzione, quasi che il tempo qui fosse un elastico contratto nel punto istantaneo della sua massima brevità. Brevità dello spazio e del tremendo dio cronologico, se immediatamente avviene il risveglio nel corpo di oggi. In questo senso il libro è universale: scomparso per tutti è il passato e scomparsi sono i noi stessi che fummo. La più gran parte del libro è però un compianto per il padre spento dall’ala cupa di una farfalla dal nome bellissimo: astrocitoma, ovvero neoplasia del sistema nervoso centrale. Ebbene, assumiamo per noi questa lezione: la traccia che rimane nella poesia, di un dolore che si presume assai profondo, è una pietà abbandonata, addolorata, effusiva quanto impotente – e la malinconica bellezza del nome di una malattia. Chi resta vivo ha amore bastante per il mondo da elogiare i suoi nomi più crudeli, più crudelmente belli, e il corpo amato diventato il profumo di fiori di tutta la valle oppure, forse, una laboriosa particella di polvere che galleggia nel cono di luce. Probabilmente per associazione con questa immagine Mario Santagostini ha prodotto a sua volta la fantasmagoria di quella pesca miracolosa dall’aria. I nostri cari: i dispersi, gli scomparsi, sono piccoli grani di polvere, che possiamo afferrare solo con la voce quando la voce fa musica, li possiamo – diremmo – tradurre. Ma alla radice del tradurre vige un imprescindibile tradimento: è per ciò che si tenta e si tenta, ancora una volta, di evidenziare i fili impercettibili che avvertiamo d’intorno, di fare della nostra parole la calamita, un organo di senso – anzi, sovrasensibile. La voce ipersensibile dei poeti è anche voce della trasfigurazione: nei testi dedicati al padre l’autrice appare essa stessa scorporata, muove in un mondo privo di qualificazioni e ne viene dissolta per contagio, nel corpo e nella scrittura. Questo processo è doppiamente vero perché, quando lo sguardo di un poeta si affaccia sull’evo del suo passato, non è mai di sé solo che parla e perché, come in questo caso, l’amore per i morti fa desiderare di ricongiungerci almeno per similitudine e per difetto, fa parzialmente morire, ma di una morte ancora provvisoria e mimetica, che ci lascia un sorriso più radioso come l’ombra circostante lascia sull’albero delle olive un raccolto più fitto. Nella parte finale del libro si affrontano infine in prima persona alcuni sparsi dettagli del tempo presente: primo fra tutti il lascito del sorriso materno sul volto un tempo malinconico della figlia-autrice, che ora ha la forza di produrre la fruttuosa abbondanza che succede al dolore, tanto che il libro si conclude con l’inizio di un viaggio, annunciato dallo sciogliersi di una neve, ovvero con l’immersione nel corpo di un uomo che comincia a muoversi nel recentemente indecifrabile. Neve, nebbia, il biancore di una montagna: i sentimenti della devozione e dello smarrimento si svolgono spesso in panorami còlti da un candore che sgrana i confini. Se il compito dei poeti è una nitida esattezza a nome di tutti, in questo caso il confondimento di attori e scenario, che rende le figure apparizioni, parvenze ectoplasmatiche e immateriali, quando non solo passi riscontrati dall’abbaiare dei cani, è quanto di più nitido si possa dire su un mondo poetico e mortale dove l’io non dovrebbe finalmente venire pronunciato: non adesso, non più, già siamo altri.

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