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PASOLINI, Pier Paolo (Poesia n. 278, 1.13)

PIER PAOLO PASOLINI

Io lavoravo con gli archetipi, vedevo come certi dei antichi camminassero nelle borgate romane. Sceglievo come attrici dei miei film donne-rogo come Magnani e Callas: nei loro occhi la periferia era già un altrove, un sito arcaico – un’area ai confini del tempo, più che dello spazio urbano – ai confini simbolici tra natura e cultura. Lo stesso mi faceva la poesia. Quando scrivevo versi le cose erano all’improvviso luminose da dentro. Una scavatrice, i calzoni di un ragazzo – ed ecco Cristo. Questa luce era un affronto spontaneo. Alla luce del mito, in questo splendore archeologico, io capivo il presente: le dissonanze che sporgevano dalla realtà mi tiravano in faccia pugni di vero dolore. Non potevo che dire, e siccome il mio dire era una insistente denuncia politica, nel mio corpo di atleta venne fatto esplodere il cuore, sotto le gomme di un’auto, poco oltre i miei cinquant’anni, abusando oscenamente della mia omosessualità: così affamata, esule, disperata e ingenua. Era mia la dolcezza che mettevo nei corpi, già da solo portavo i miei amori come l’ascia di una colpa, essendo – come ero – un impasto dolente tra un cristiano delle origini e un comunista. Povero Pino (n.d.r.: P. Pelosi, il giovane che si autoaccusò dell’omicidio), braccio posticcio della mia morte, che ti hanno fatto! Moravia disse che l’omicidio era grande, perché di poeti ne nascono pochi in un secolo. Certo, io sono morto perché qualcosa dentro mi spiegava dove il mondo a me contemporaneo fosse rotto, in quali sentimenti, a quali modi coatti e osceni rovinasse l’Italia, per quale naufragio dell’anima il mio paese tenuto in braccio dal mare fosse stato preparato dal malanimo dei suoi governanti. Lo si vede in Petrolio, che dovette restare incompiuto. E vedete da voi com’è andata a finire. Ero nato a Bologna nel ’22 e all’idroscalo di Ostia è avvenuto il martirio, il 2 novembre del ’75. C’è un monumento in abbandono, ma che volete che importi: il monumento me lo sono eretto con le parole. Adesso posso dirlo, me lo perdonerete. Sono stato poeta del cinema, degli articoli di giornale e dell’opera critica, perché il mio era lo sguardo di un poeta e mi metteva ovunque la sua grazia e la sua gratitudine. Egualmente fui autore di canzoni, celebrai la bellezza del creato tanto quanto può un uomo, lodai l’altezza delle nuvole anche viste dal fondo di una discarica, lavorai in radio e alla televisione, m’interessai alla vita anche nella sua forma più maligna e segreta, come in Salò, m’innamorai e scrissi nel materno dialetto friulano e in quello romano – e amai mia madre da poeta, con una univocità che mi soggiogava, vissi con lei per tutta la mia vita, io ero me stesso e mio fratello Guido, il partigiano ucciso dai suoi stessi compagni; misi mia madre ai piedi della croce: una Madonna vecchia. E così avvenne: lei vide intera tutta la mia croce – perché i poeti sono anche piccoli profeti e perché le profezie sopravvivono ai profeti. Ma, finché lei ha sorriso, io non sono andato perduto, perché alla fine di tutto viene la più flagrante, la più semplice tra le semplicità.

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