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Antonioni Michelangelo, omaggio a (rifrazioni, 1.13)

identificazione dell’eros nel cinema di Antonioni
 
all’inizio c’è Il grido, il corpo sopraffatto dell’amante abbandonato che subisce lo spettacolo lancinante della felicità di chi gli ha procurato tutto il male.
che cosa pensa chi si dà la morte? che rivela il suo fare giustizia di sé? questa creatura in esilio, esiliata dal suo stesso desiderio, si esilia dal corpo che è il contenitore del desiderio
e insieme punisce chi lo ha abbandonato. lui la punisce irreparabilmente, con una morte massiccia e scomposta. il suo determinato corpo in abbandono, la toccante maceria di eros, ci dice:

io sono qui, caduto davanti a una pietà tardiva e ridimensionata dalla sommossa
dei contadini – gente bella che corre
sullo sfondo, gente che crede alla giustizia degli uomini. io
non credo più alla Giustizia: ho visto coi miei occhi che chi abbandona può essere felice. ho visto coi miei occhi il suo sorriso, la sua gioia, tagliente come un Trionfo di satana. così

mi sono giustiziato.
ho visto l’innocenza di mia figlia trasportare pietre, la sua gioia naturale
compromessa dal peso della carne del padre. ricordo me come non fossi io. ricordo

quelle gambette in corsa nella neve fresca, ricordo
l’irreparabile catena delle conseguenze. il male figlia il male. io sono il corpo offerto in sacrificio
all’ingiustizia dell’amore. l’amore è solo uno fra i molti altari eretici della terra.
io credevo che niente finisse, credevo
che il nostro corpo bifronte avrebbe trionfato
come una dispensa di infinito e che niente di noi
sarebbe andato perduto

ora che io non posso più aspettarti, muoio – oppure
la rabbia finisce per disperdere le comuni stoffe e gli alimenti come le costellazioni domestiche di Zabriskie Point, con la forza di proiezione del fuoco: la cosa perde la sua riconoscibilità, i lineamenti quotidiani.

ma nell’occhio terribilmente aperto di Antonioni anche durante la frana delle promesse eterne splende il diamante perfetto e autosufficiente dell’immagine

e, insieme a questo insostenuto dolore umano, ovunque in questo cinema c’è una terra che canta. una seconda terra, una seconda voce: prima, siamo davanti a uno scenario che vuole sembrarci fantascientifico – all’inizio artefatto e diluito di Deserto rosso – allo sconcerto di un essere umano di fronte al degrado. l’Antonioni della trilogia della malattia dei sentimenti proietta nel suo primo paesaggio a colori il disorientamento dell’anima, lo fa colare tra la materia grigia dei quartieri industriali, dove il fumo diventa rappresentazione della foschia interiore.
 
questo mondo assediato da fumi e scarichi avvelenati viene ripreso contemporaneamente al romanticismo vitale degli operai di Petri, che sono uomini frontali, nevrotici e reattivi – dotati di una carne ancora intatta davanti all’evidenza del misfatto che inizia a dilagare. quelle di Antonioni sono figure già sopraffatte da una realtà indecifrabile. eppure Antonioni si compiace del suono – insistito, rantolante – dei macchinari
 
un re.spi.ro oc.clu.so di in.te.rio.ra me.tal.li.che e di mac.chi.ne, un sof.fio bo.ra.ci.fe.ro – bu.del.li, ven.tri.co.li, ghian.do.le, bul.bi, or.ga.ni ton.di o ca.vi, le.ga.men.ti
 
un respiro metallico, sulfureo, cancella la fisica umana e le sue parole. Antonioni subisce ancora il fascino della scomparsa della figura umana: ovunque e comunque sia rappresentato, l’eros è una minaccia: d’infelicità, di abbandono o il residuo sporco di un passato – gesti d’amore come rovine di un altro tempo. ora il tuo corpo è un pianeta sconosciuto fra le mie braccia e nemmeno la consolante consuetudine con la tua forma organica è concessa.
la matematica disposizione dei fusti nella palta industriale rappresenta invece una serena estetica del degrado e la figura femminile umana avanza occlusa, sbarrata da una sintesi orizzontale, oscurata dalla egocentrica disperazione di chi non conta più niente. e l’erotismo disperato di Deserto rosso, la cura elementare che l’uomo offre alla donna – alla quale lei sfugge a più riprese – non aiuterà quei corpi separati. l’insistenza di un corpo su un’anima malata non ne può essere medicamento, sono codici alieni. e se ci si fonde si è comunque soli, perché l’altro sparisce.
se la poesia è veramente conoscenza erotica del mondo, come ci insegna Marìa Zambrano, questa conoscenza erotica ha invece tutte le qualità dell’impoetico.
 
inoltre: la nave che passa in pieno film di là dagli alberi ha pure essa una temperatura aliena, ma in questo piccolo gruppo industriale nessuno è disturbato da dubbi e sentimenti, l’anomalia si affronta parlando di affari – se non fosse per le periodiche emissioni di malessere da parte di Giuliana. in questo cinema le persone lasciano le persone essere se stesse – e questa è la radice di una solitudine astrale: non sussiste alcuna interferenza tra gli individui
e così, la malata è il sensore, l’impalcatura rossa per ascoltare il suono delle stelle, è l’insonne a contatto con la marea sommersa e ingovernata del cuore di tutti. altrimenti, vige uno sfioramento di meteore inumane sopra gli scoli delle fabbriche nel fiume quando in un giorno irriverente e crudele si distrugge qualcosa che non ci appartiene. la malata è l’agnello sacrificale.
 
il cinema di Antonioni è però anche fatto di uomini calamitati dalla gioia di vivere delle donne, dall’icona dell’amazzone (Eros e Identificazione di una donna), dal centauro donna – pensiamo al galoppo cavallino di Linda lungo le scale della torre di Eros, pensiamo al viluppo di Eros sulle strutture portanti della torre in pietra. nessuna
maglia d’acciaio, nessuna membrana di contenzione tiene il cielo nella guaina del cielo, le nuvole basse emanano una incombente minaccia di pioggia sul bordo del mare come uno squaglio di materia cerea
mentre l’uomo getta la sonda della sua lingua
nel corpo estraneo del centauro,
della donna-animale
che è sempre l’altra, quella che è in contatto con la gloria snervante e gioiosa della natura e tiene fede a un diritto naturale, a un contratto di carne che benedice la carne senza intermediari e senza nome: prima del nome viene comunque il corpo, la tenerezza di oggetti sparsi in basso, nel loro nido di cenere imperiosa.
 
alla fine di tutto, l’idolo equino e muscolare sorriderà all’eleganza del corpo sensibile: l’incontro delle ipotetiche rivali sulla spiaggia di Eros concilia l’inconciliabile nel sorriso di grazia scambiato tra l’amazzone e quella che ama e con durezza insolente non tradisce e resta nel dolore acido e rabbioso della fine apparente di un amore. eros è intelligente e lungimirante, rifonda un mondo di opposizioni. perché quando noi cominciamo niente è a fuoco, poi con il tempo il desiderio diventa perfetto
e trasparente. niente
è più pericoloso che realizzare un sogno. certe creature ne muoiono. dunque con gli anni il desiderio diventa: non toccare, non rischiare di uccidere
quello che amiamo
 
la sola possibilità di amare per sempre è non possedere: i giapponesi non mettono fiori nei giardini per non vederli morire
 
ma questa non è ancora libertà, è tenersi a distanza di sicurezza dalla perdita, siamo tra gli slittamenti della seconda ossessione di Antonioni: la terramare, la laguna, il controcanto sordo e liquido della instabilità dell’acqua che ci prende al cuore perché è simile a quella di una malattia che non abbandona. riconosciamo come in sogno tutta l’insidia degli elementi liquidi. eppure, solo le nostre azioni parlano di noi. eppure, ognuno di questi gesti di nudità non denuda, perché quest’anima psicologica è a se stessa sconosciuta, cade rovinosamente giù dalla bellezza del mondo
 
fino a quando un bambino assume il male e la madre ritrova per lui, con le parole di una favola, la forma di una bambina a metà tra la solitudine dei grandi e quella della felicità, in un luogo dove coincidono la terra e il mare e dove tutti cantano.
 
per chi canta davvero la terra? canta semplicemente per nessuno, per la gioia di cantare, senza spettatori, senza nemmeno offerta. il canto femminile di Budelli in Deserto rosso negli anni si è trasformato nel canto delle rocce e dei nudi di donna in Eros
 
c’è sempre, allora, il suono di un altrove sotto la realtà, un’altra lingua della quale siamo in ascolto e ci dice che niente è senza rimedio. come vige un mistero dietro ogni immagine, seppure scandagliata dalla sonda dell’occhio di un regista di tale intelligenza. sempre un richiudersi e uno sfuggire, sempre questo continuo rimarginare
di budelli e di rocce: il continuo, l’intenso ricominciare a nascere
del mondo. si cicatrizza, in piedi di fronte al sole, pieni di un vivo senso di gratitudine per la realtà, che deve solamente rimanere intatta e intera in sé. come chi porta la grazia modesta della felicità.
 
una sola figura felice, diremmo superumanamente felice, aveva appena attraversato il cinema di Antonioni: Irène Jacob, promessa sposa di Cristo in Al di là delle nuvole, lei che osa rispondere niente, con un sorriso che irradia una pacificante dolcezza, alla domanda banale di Vincent Perez: cosa vuoi tu dalla vita? niente. dice lei, che ha uno splendore fragile di cerva, di assenza.
questo stato di fiducia animale dell’eros è dunque la forma compiuta del nostro desiderio, quella che può rispondere che l’amore umano non è che una candela accesa in una stanza piena di luce. eros è stanco dell’insaziabilità del corpo, tende a morire come muore il fuoco per esaurimento. forse allora la rozza soppressione del proprio corpo ardente di dolore de Il grido e i fumi aranciati di Deserto rosso sono la premessa alla speranza finale di scomparire in una luce divina, diventare radiosi e disumani. forse queste creature già manomesse da un altrove postumo sono le vere icone della gioia terrestre.
 
dunque ci sembra che Antonioni abbia usato la propria sublime abilità con le immagini per liberarsi progressivamente dal suo desiderio e dal suo essere uomo, ovvero per arrivare a sopportare da vivo la più sconvolgente e liberatoria delle perdite: la perdita di sé.
concludiamo questa opinabilissima dimostrazione ponendo in dialogo immaginario Aldo, il protagonista de Il grido, e la bella passante senza nome, promessa sposa di Nessuno in Al di là delle nuvole.
 
Lui: eros è lo splendore bianco della tua carne perduta che restava distesa per me nella luce già intera della mattina. eros diceva ti lascio qui il mangiare
 
Lei: è ciascuno dei petali del prato dove si versa la tua luce rara
 
è la straziante assenza del tuo corpo carnale
 
è la luce distesa dal tuo corpo celeste. luce svuotata da tutti i desideri che l’hanno preceduta
 
è il ricordo dei baci sotto il melo, con quel poco di vento profumato che ci portava la stessa nostalgia. credevamo di rimpiangere il paradiso ma eravamo insieme. quello
era già il paradiso: quell’ombra lieve di malinconia nei baci, quell’inquietudine a volte
 
è la carezza planetaria del vento
 
è l’ombra bianca della tua fronte che portava le mie dita a consumazione, quando
peregrinavo tra le fiamme del tuo corpo fiammante
 
è lo splendore della terraferma, l’erba sensitiva
sui fianchi sordi e neri della montagna che tengono alta
la corona di rose del cielo
 
fammi un tempio sul cuore. e dentro
seppellisci per sempre
il cuore di chi mi ha abbandonato. che non possa più amare
altri che me
 
è l’amante infallibile, intangibile, quello
imbattibile perché immortale. è l’amante di tutti:
lo vedi la montagna come vive tranquilla, raccolta nella nera
forza dei fianchi con filacci di nuvole che porta il vento e io non sono
niente più di una nuvola.
                                   
                                       di umano
resta solo il sorriso. tutto il resto è dissolto
e superfluo: è felice.
 
28.9.12

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