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BRODSKIJ, Iosif (Poesia n. 278, 1.13)

IOSIF BRODSKIJ

Nacqui russo e morii americano. Cose che capitano, soprattutto se a vent’anni i tuoi compatrioti ti arrestano e ti mandano a spaccare legna fino allo svenimento per le cose da “parassita” decadente che scrivi e che tanto erano piaciute alla Achmatova, un’altra che aveva avuto guai seri con lo stalinismo. Risposi al giudice, che mi chiedeva conto degli studi fatti per diventare poeta, che la poesia non viene dalle scuole, non lo so, forse viene da Dio. Però la fatica che mi costrinsero a fare si trasformò in un senso di comunione con il dolore degli altri. Il mio essere umano tra gli uomini nacque lì: cominciai a interessarmi moltissimo al dono equivoco della poesia, ai poeti in quanto persone. Intanto, venni esiliato, e mio figlio rimase a Leningrado con i miei genitori. Io cominciai a salvarmi sollevando lo sguardo oltre l’effimero e diventando sempre meno lirico, sempre più neutro: un oggetto dotato di spigoli. Nel 1987 mi diedero il Nobel: a 47 anni!, ma ormai ero convinto che le opere fossero migliori dei poeti, che ogni carriera letteraria inizi da una aspirazione alla santità ma che spesso la penna sia di gran lunga più dotata di talento dell’anima. La vita non passava inosservata su di me: mi cambiava, mi arava e io dovevo rinascere, sentivo di dover rendere conto di come un essere umano possa divincolarsi dal male e dalla ingiustizia ampliando la propria umanità e immaginando oggetti come segni sacramentali, come scrisse il mio splendido Auden. Fui senz’altro, per usare la famosa categoria della Cvetaeva, un “poeta con storia”. Viaggiai il mondo, ma avevo sempre davanti agli occhi la mia terra perduta: lo vedete da voi, in Fondamenta degli incurabili, quanta Leningrado! trovassi in Venezia, una tale forma personale del paradiso da farmici seppellire, nel ‘96, quando finii per morire di cuore. Io invece avrei voluto coincidere con il tempo, spingervi sopra il corpo un carro armato di parole e, più tardi nella vita, desiderai che la musica delle mie parole fosse tale da attrarvi come un magnete verso uno spalancamento, poiché i versi non sono che il mezzo di trasporto della poesia verso una ampiezza di sguardo che ci fa uguali – e non solo uguali fra simili!: mostrai sempre uno spiccio fastidio per il patetismo umano e una religiosa ammirazione per la impassibilità dell’oggetto. Una religiosità primaria, quasi compianto e desiderio in prossimità della morte, perché la perdita è il principio di eguaglianza tra Dio e i mortali. E così, dopo me già lambito dalla morte e gli impassibili oggetti, diedi voce a Maria, quella che si è fatta terra per il passo di Dio – e diedi voce al Figlio, che si sottomettesse interamente al possesso da parte della creatura che lo ha creato! Io dilatai il principio di eguaglianza tra la mortalità e il divino emblema della immortalità: provai la passione per la infernale neutralità di Dio, come dovette provarla Clarice Lispector . In quella neutra inerzia naturale certe strane creature trovano Dio. Ma, se uomini e cose sotto quello sguardo sono uguali – e se uomini e Dio sono uguali, ecco che Dio è la cosa e la cosa è Dio, ecco che tu che mi stai leggendo sei insieme Dio e una cosa, sei talmente una cosa da possedere la perfetta inerzia di Dio, la mancanza di moto del motore primo. L’amor che move il sole e l’altre stelle. Te lo ricordi Dante, l’altro motore?: perfettamente immobile, perfettamente umano.

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