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CVETAEVA, Marina (Poesia n. 278, 1.13)

MARINA CVETAEVA

Caddi nel tempo della Bilancia, a Mosca, nel 1892. Non nacqui bella ma perentoria e appassionata come una poetessa – e lo dimostrai subito: a 6 anni cominciai a scrivere le prime poesie e a 17 pubblicai un libretto, che venne notato addirittura da Volosin. La prima volta che misi piede nella sua casa di Koktebel’ incappai nel mio futuro marito, il mio solo compagno terrestre. Le mie parole invece presero a respirare in tante creature, uomini e donne. Le mie parole creavano legami subitanei di sangue. Di me s’innamorò per primo il gigantesco Mandel’stam e insieme immortalammo la primavera del 1916. Io ero già madre della piccola Ariadna e nell’anno seguente mi nacque Irina, mentre Efron, mio marito, ufficiale dell’Armata Bianca, veniva allontanato dalla rivoluzione. Non sapete quanto anelito e quanta disperazione patì la Russia in quegli anni: a causa di una dura miseria dovetti mettere Irina in un istituto, e lì la mia bambina morì per fame. Questo fu il primo fatto imperdonabile. Per amore di Efron scrissi cose per cui venni esiliata dagli stalinisti. Cominciai le mie peregrinazioni: raggiunsi Efron a Praga nel 1922 e, nonostante tutto, fummo felici. Nel ‘23 diedi alla luce Mur. Ci trasferimmo a Parigi. Nell’esilio pubblicai molto: per esempio Poema della fine, Dopo la Russia i saggi lirico-filosofici de Il poeta e il tempo e il Racconto di Sonečka e dall’esilio – ma tardi, tardi! – poco prima che il tuo sangue celeste si guastasse, grazie a Boris Pasternak mi venne incontro la tua anima, Rainer (n.d.r: R. M. Rilke). Pochi mesi non bastano. Tentai di trattenerti, sebbene non avessi mai creduto alla terra, ma avevo sete delle parole che il tuo corpo in pericolo emanava verso di me – tanto da sentire la tua vera fronte sulla spalla, a lungo, dopo che te ne andasti. Nel ’26 morì con te la mia possibilità di un interlocutore celeste. Io non potevo fare a meno di essere in amore. Poi, mi venne addosso la nera catena dell’insopportabile. A mia insaputa Efron collaborò all’uccisione del figlio di Trotskij, e di un agente dei servizi segreti – e si rifugiò nella Spagna stravolta dalla guerra civile. Io tornai nella Russia bolscevica solo nel ‘39, per accontentare i miei ragazzi, ma sapevo che i due decenni trascorsi all’Ovest avrebbero pesato enormemente sulla mia figura pubblica. E così fu – e fu il meno: mia figlia e mio marito vennero arrestati quasi subito. Mur ed io fummo soli, confinati a Elabuga – e lì venni travolta dalla ingiustizia della storia umana: rifiutai di collaborare con il regime, arrivai a mendicare un posto di sguattera alla mensa degli evacuati, accanto a me non c’era futuro per il figlio che amavo alla follia e, presa da una cupezza definitiva, l’ultimo di agosto del ’41, sola in casa, mi strinsi la corda intorno al collo e me ne andai. Si può dire che io sia morta da sola come da sola visse la mia anima, si può dire che io sia morta per troppa altezza che non trovava – o non aveva più – compagni terrestri. Il mio corpo, è perduto. Ma io chiedevo solo di non essere, chiedevo questa doppiamente vita – nelle parole.

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