Dalla sua bocca (Zona, 2013)
[…] Davanti ai dattiloscritti che mi sono stati sottoposti ho provato l’imbarazzo che si prova a sorprendere involontariamente qualcuno in una sua posa intima. Qui, pareva di spiare una poetessa davanti a una sua materia verbale disarginata. Nemmeno in una bozza di laboratorio, bensì nell’out-of-order, nella irresponsabile disorganizzazione di una materia umana sottoposta a certe micidiali scosse elettriche. La vigilanza di Merini sulle proprie parole, normalmente già scarsa, qui risulta completamente in disuso: la poetessa è preda di una lingua più che mai dilaniata e oscura, ma, nello stesso tempo, questa cattiva riuscita poetica ci consegna in regalo un’evidenza: l’imperversare della follia e le relative cure fanno di lei una triste paranoica, le cure le disvelano l’angusto reale che ella non sopporta e dal quale era sempre fuggita grazie alla candela accesa in permanenza nella sua anima che aveva nome Poesia. Poesia di luce e trasfigurazione, parola-verbo di rinnovamento e di benedizione: dove il suo grido era sempre altissimo e teso in una pure disperata forma di speranza, gli elettrochoc le schiacciano la testa sulla superficie polverosa e fredda delle cose.
Ne rimane dunque il prezioso documento di un’evidenza: la “follia” poetica, il mal della parola, è di qualità radicalmente opposta a quella clinica, la quale è cinica, depauperata, angosciata. Sotto la pressa farmacologica le anime sanno di vuoto, sanno di calma chimica e di oppressione. La gestione psichiatrica era una sottile e ferocissima dittatura perché privava addirittura i corpi del rispetto dovuto: nei reparti vegetavano creature dissanguate da uno spreco mortale, prive di libertà, si spostavano grumi di materia distonica e stonata, caduta nella propria solitudine, nella infezione di una solitudine senza rimedio, dove invece la poesia ficca letteralmente le piume nelle clavicole dei poeti, mette in loro una libertà essenziale e l’intensissima qualità morale del prendere la parola a nome del coro umano.
L’internato psichiatrico è solo come il più solo degli uomini.
Il poeta prende la parola in vece dell’intera umanità.
Questa la differenza. Questa la qualità della gioia senza rimedio dei poeti.
Questa la forse involontaria denuncia politica della parolacorpo Alda Merini.
[…]
chronica IV
poi sui navigli si aggirano certi politicanti da strapazzo
che diffamano le donne per nascondere un’interna avarizia
del cuore – e tutti gli invisibili
tradimenti
mio marito affermava sovente che si tratta di cialtroni, gentaglia
che colonizza la mente degli altri con ciarlatanerie, come chi senta urgenza
di defecare sugli appezzamenti del possidente
e gli eriga sugli orti il suo monumento di sterco come un Evangelo
che condanna
il ricco epulone ma dell’epulone
abbia tutta la veste morale, tutta
la crapula, ma lo schiaccerebbe volentieri perché come lui
non è comunista;
e poi questi ce l’hanno con la chiesa perché la chiesa è ricca e promuove
la castità come ideale del genio. ne consegue
che mettere in dubbio la castità significhi
mandare al diavolo l’intelligenza nemica
chronica IX
e poi ci sono anime irraggiungibili, scempie
e scomposte,
che si rifanno al giudizio di altri, poi
che non si fidano
dei propri baiocchi, come direbbe
Pinocchio, quell’esterrefatto
aggeggio della memoria
di nome
Pinocchio, il quale rappresenta un divenire
altro nelle mani
di altri. ma alcuni hanno mani che fabbricano e versano
i veleni di un potere saltuario in un tremendo
desiderio di continuare
chronica XI
grazie a quelli che hanno creduto
alla mia versione e ai ricordi
dell’ormai povera
mente di questa donna, grazie
perché mi hanno salvato
per lo meno la vita, ma non sono stati
tanto generosi da lasciarmi
gli amori, che mi avrebbero
consolata e mi avrebbero fatto
compagnia. giuliano,
che è ridotto a un omuncolo
di paglia, adesso gira intorno
alle ragazzine come un vile
lupo di tane private
che esibisce i suoi spasimi amorosi tal quali
capretti infissi a una parete. io dico: certo
che mi fa pena,
ma non so perdonarlo, perché colui che semina dolore non può e non deve
uscirne che zoppo
e dolorante, perché guai
se in una donna
o in un uomo l’uomo
non riconosce un simile, il proprio stesso
fratello
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