Corpo alieno (IL CORPO, 2/13)
Le belle immagini di Fabiola Ledda (la cui lettura è qui suggestionata dai con-testi di Cuore di preda, antologia poetica contro la violenza alle donne, nei quali le abbiamo incontrate) lavorano su uno slittamento del quotidiano, espongono la nudità femminile a contatto con le cose comuni – anzi, diremmo meglio: convenzionali, con gli oggetti di convenzionale competenza femminile: tovaglie, letti, abiti da sposa, tavoli e pentole – in una convivenza disarticolata e aliena; manifestano subito come sia spiazzante il dolore subìto: quello che più abbiamo amato – il volto di un compagno – si è trasfigurato in quello di un nemico, quando non di un carnefice; allo stesso modo non riconosciamo gli oggetti di scena dei mestieri quotidiani, con i quali eravamo a nostro pieno agio prima di questa dolorosa conoscenza del brontolio che interferisce con il silenzio vasto (marino, boschivo) dell’amore.
Il corpo, una volta colpito o comunque sopraffatto, rimane denudato per chi lo possiede: disordinato dalle stesse mani, stavolta con vergogna. Il suo panorama di riferimento è a soqquadro: una donna umiliata dalle percosse assume uno sguardo di estraneità sul proprio corpo – se non ingoia pericolosamente il cupo sguardo d’odio che ha sfigurato lo sguardo amato –prova distacco e stupore per la sua prima nota casa di carne, che le diventa quasi sconosciuta e con la quale smarrisce ora l’amicizia – e si risolve a muoversi nelle stanze del corpo con il contegno formale dei disorientati: avanza dunque in sé per sommi capi e grossolanamente, trasformando la misteriosa intimità pregressa nella convenzione fisiologica della sopravvivenza. Se l’epidermide è macchiata dai colpi, il corpo sotto si svuota per l’urto dell’onda sonora, perché la memoria del colpo echeggia dentro come in una cava, forma stalattiti di sangue sotto le ecchimosi, è una casa che piange all’interno. La massa serena degli organi fa spazio all’onda magna dell’evento: ogni congegno si contrae e stringe in sé la sua pena. Il corpo che si vede non è più una struttura solida e muscolare, non è più l’architrave di un commercio solare, è il guscio fragile che tiene insieme molte solitudini: del cuore, del fegato, dei polmoni e di tutto quanto era nato per comunicare con il mondo di fuori. Ma, sopra ogni cosa, il corpo vuole vivere. Il naturale impulso alla gioia naturale riorganizza il disordine e rimette in piedi se stesso in forma di domanda: che me ne faccio ora di queste mani, di questo seno, di questa faccia che erano belli per te? e hanno provato tanto inutile dolore. Inoltre, so di essere stata io a far entrare il ladro nella mia casa. Per ciò la maggior parte delle donne non è incline a denunciare la violenza privata: per non dover fare i conti con una maceria tanto ingombrante e dispendiosa e dura da risollevare. Per la disperata speranza di aver deciso qualcosa, un tempo, di aver goduto di una originaria autonomia alla radice del precipitare degli eventi, ma soprattutto per il disperato e testardo convincimento della permanenza di un legame amoroso, ancora amoroso, sebbene rovesciato, come quegli scarabei, miracolosi quando sono in volo e miserabili quando il carapace preme il suolo e le zampette vorticano e non riescono a rimettere in piedi il peso metallico del corpo, perché tutto quel piccolo corpo riprenda il suo spettacolo volante e viva di bagliori di mercurio e d’oro.
Questa catena di pervicace decadenza sentimentale è ben descritta da Fabiola Ledda, che pronuncia in immagini tale spesso impronunciabile estraneità da sé, il nascondimento, il cuneo insopportabile della vergogna che la violenza insinua tra sé e sé, forse proprio per l’infondato, nebuloso sospetto (speranza!, come abbiamo visto) di essere state noi a evocare la bestia nel corpo dell’amato, a rovesciare a terra la goccia d’oro del suo povero cuore.
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