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Elio, tu che sei Carla (Aragno, 2013)

in Dobbiamo continuare, 73 per Elio Pagliarani a un anno dalla morte – a cura di Andrea Cortellessa

Quando avviene il vivo di una voce, questa dirama in altre voci e si moltiplica: per gemmazione spontanea, primaverile. Ma, perché avvenga questa filiazione, bisogna essere stati a nostra volta abitati da vivi dalle voci di altri e bisogna aver provveduto, a nome di tutti, a mantenere oliata la macchina della voce umana. La coralità implicita nella poesia di Pagliarani, il suo volere assumere (mai riassumere) gli altri in una voce che riusciva “oggettiva”, è a nudo in questo volumetto di dediche e omaggi di settantatré fra amici, allievi e compagni di strada, quasi che, al momento del dolore, molti dei maggiori critici e scrittori di oggi si siano incamminati ad abbeverarsi alla fonte morale di un’intera lezione poetica e si siano sentiti incaricati, in molti, del suo cuporadioso segreto. E com’è ben descritto, come si risente! in queste pagine – fatte di mescolanza alfabetica di prosa e poesia – il moto ondoso e seminale della voce dell’amico e maestro: fisica, tellurica, percussiva. Dagli acrostici agli echi platonici, emerge il ricordo della poesia morale e corale – e per ciò mai definitiva, sempre da “fare” – del più realista tra i novissimi, quello che camminava dentro la protettiva nudità del mondo, nella realtà tirata fino all’osso ideologico, senza bisogno di maschera lirica. Sue manifeste compagne furono la citatissima pipa e la famosa voce, anarchica e corporale, grazie alla quale Pagliarani portò in scena la musica babelica della metropoli e, dentro il ritmo urbano: una ragazza, studenti, merci, animatori: una realtà tridimensionale nella quale sarà sempre necessario riporre la piena, vitale, analitica e laica fiducia che Pagliarani riponeva in essa.

Elio, tu che sei Carla
 
Mio caro Elio, so che non hai voglia
che si parli di te
ma lascia, per favore, ch’io ti renda la dolce protezione
di ben poche parole, ora che sei tu pure nella bianca
solitudine dei libri. Io lo faccio per me,
per nostalgia di me quand’ero Carla
e tu parlavi con la lingua mia
di quelle scrivanie, di quelle macchie
silenziose di femmine sul neutro
del falso legno (fòrmica
o compensato impiallacciato). Elio, lo vedi
le “ragazze di oggi” come stanno
sole sugli autobus, vedi il chiasso
di una disperazione
che nessuna di loro riconosce
come ha coperto gli avambracci magri
dove il peso dei fiori ha un valore
incerto. Sanno soltanto che non durerà. Lo sanno come sanno
la cosa naturale d’esser vive. Non ce n’è oggi preparati a piangere
per loro: questo danno
è per loro una cosa naturale. Sono mazzi coscienti di ginestre già intrecciati a corona
sul torace di un pallido Occidente. Ma tu, Elio, che è da cinquant’anni
che sei Carla, fai che uno raccolga
questo cupo rumore di vespaio, il rombo infetto della cattedrale
del mercato, questo impasto cruento di corpi
giovani e precariato
e ne faccia durata, tempo
comune e dell’io inesemplare, un assetto corale della voce, abbia pietà.
 
Roma, 15.3.2012

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