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Pasolini, Columbu (Rifrazioni n. 13, 1.14)

CROCEFISSIONE IN DUE TEMPI

primo tempo, 1963: mitologia, crocefissione e morte del sottoproletariato urbano ne La ricotta di Pier Paolo Pasolini

Tra l’Appia Nuova e l’Appia Antica, su uno sfondo di palazzoni incendiati da un sole primaverile in bianco e nero che lambisce la sorgente dell’Acqua Santa, Pasolini installa le perfette riproduzioni viventi di due Deposizioni dai colori profondi. I corpi e le vesti degli attori, sotto i giganteschi fari da cinema, sfavillano come gli olii delle tavole iconografiche di Pontormo e Rosso Fiorentino ai quali Pasolini fa riferimento e che trasporta con assoluta fedeltà nel mezzo della prima periferia romana.

Il risultato di questo fuori-luogo sarebbe la straniazione ancor più sacralizzante che Pasolini ottenne in opere successive – per esempio sovrapponendo l’immaginario chiaroscurale di Masaccio e Caravaggio alla morte per contenzione di Ettore, figlio di Mamma Roma – ma, ne La ricotta, Pasolini si arrischia a raddoppiare il gioco: egli simula di riprendere le riprese di un film sulla Passione – e il vero protagonista del film non risulta più essere Cristo: la Passione finisce sullo sfondo della messa in scena della fame elementare di Stracci, chiamato a impersonare il ladrone buono.

Il gesto incorruttibile della fame percorre il film e la vita di Stracci dall’inizio alla fine. Il gesto primigenio di sfamarsi con la ricotta che dà il titolo al cortometraggio – e poi con tutto il commestibile che i figuranti offrono, deridendo e compatendo – prende il posto emotivo del sacrificio di Cristo: nella Roma già quasi campagna che Pasolini tanto amava il figlio attossecato, figlio bianco e vermiglio, il Cristo bello e pianto con le parole di Jacopone da Todi da una compagnia di sguaiati, è sideralmente lontano dalla grande bouffe di Stracci, che si ingozza di ogni “ben di Dio” fino a morirne, incurante dello scherno dei compagni.

Morso dalla visione sotterranea a tutta la sua arte, Pasolini cala dunque nell’Anno Domini 1963 il tempo fermo e circolare del mito, una cultura religiosa delle origini, antecedente all’abuso della mitologia cristiana.

Riteniamo che il film sia stato ritenuto perturbante e sconveniente, più che per i cavilli dogmatici che hanno costituito i capi dell’accusa giudiziaria, per il trasloco di compassione dalla pomposità multicolore di un Cristo estetizzante alla povera morte in bianco e nero di Stracci. L’accusa affermò infatti che Pasolini intendesse sostituire il simbolo del sottoproletariato a quello di Cristo – ma Pasolini così si difese: al Pasolini interessa soltanto mettere a fuoco il problema del sottoproletariato, senza falsi misticismi: quel sottoproletariato che sta morendo – storicamente – senza che nessuno sappia che farsene.

Non si trattava di “sostituzione”, bensì di identificazione del Cristo sacrificato con un corpo (sociale) reale e moderno, dunque del progresso della figura di Cristo all’interno di una società contemporanea.

Inoltre, al punto 11 della sua difesa, Pasolini ci spiega la crudeltà dei generici nei confronti di Stracci rivelandoci il codice non scritto della dissacrazione, in vigore nelle borgate romane: Vivere nei sobborghi delle grandi città è spesso una scommessa difficile, e fa parte dell’onore saper fare gli scherzi o saperci stare. Pasolini attribuisce anche a Stracci la dignità mitologica di Accattone.

Purtroppo la censura intervenne in vari punti del film, ma in particolare sulla troppo “politica” frase finale “povero Stracci, crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione”, costretta a diventare la più ontologica: “povero Stracci! crepare, non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo”.

I poeti, come certe altre astratte creature, sono loro malgrado dei visionari. Questo non vuole affatto dire che i poeti non vedano la realtà, anzi, al contrario, che essi hanno la possibilità “naturale” di interpretare la realtà sovrapponendo ad essa la memoria di un’etica antecedente alla sua traduzione e tradizione sociale. Pasolini arrivò a descrivere minutamente il mondo morale che aveva in animo: le sue opere sono spesso una messa in scena dello scontro tra la visionarietà soggettivo-universale della poesia e l’automatismo, la presunta obiettività della forma. La sua opera lascia spesso stridere una sopravvivente cultura umana con tutte le “forme” (intellettuali, culturali ed economiche) del vivere sociale. Come spiega egli stesso in uno scritto corsaro: “L’interpretazione puramente pragmatica (senza Carità) delle azioni umane deriva da questa cultura puramente formale e pratica.” La difesa legale cui fu ripetutamente costretto diede modo a Pasolini di riflettere a fondo sul tema dell’arbitrio individuale di fronte alla legge e di esprimere nei Tribunali la sua analisi della società e il suo pur sempre garbato dissenso. Eppure, la sua “visione” finiva spesso per persuadere le istituzioni e imporsi nei processi, perché la logica della poesia riguarda il genere umano almeno quanto quella del potere. Pasolini era quasi inattaccabile, perché il suo inconscio era estremamente consapevole e vigile, ma soprattutto perché imprimeva a un incontestabile realismo (un esempio per tutti: la sua abitudine a far recitare i non-attori) come un antico gemito infantile schiacciato sulla faccia della terra, cioè la nostra voce più profonda di abbandonati. Il potere poteva dunque solo infastidirlo, non perturbarlo davvero, solo scalfire la superficie della sua esistenza – o piuttosto ucciderlo, fare di lui la bestia da sacrificio che l’usignolo canta dalle origini.

secondo tempo, 2013: maria vista dall’alto della croce in Su re di Giovanni Columbu

cinquant’anni dopo – e questo spiega con i fatti i cambiamenti avvenuti nella società – Su re di Giovanni Columbu porta il prototipo pasoliniano del ladrone Stracci all’esplicita altezza di essere Cristo

Cristos è l’agnello muto trascinato al macello, Cristos non ha beltà, nella passione che gli viene inflitta sull’altopiano carbonatico

l’ispido su re di Columbu non è Verbo ma Natura, l’audio esploso della voce della natura

che raggiunge il silenzio arcaico interno alla rumorosa complessità di noi, creature culturali

questa terra dove il crocefisso beve aceto con la pazienza di un animale comincia dal rombo del vento

e dal ronzio degli insetti, dal fischio dei primi uccelli del mattino e dalle voci gutturali dei maschi umani stesi all’aperto quando ancora albeggia – sopra tutto comincia

dal suono secco dei chiodi e dell’irrisione sulla pietraia di Supramonte – arsa e grigia – dove gli uomini non sono diversi dalle pietre che calpestano

hanno una solitudine di bestie – dentro, più che davanti alla loro natura primordiale che chiede unCristo morto mortu cheres Cristos

in uno spazio tanto ampio e vuoto tutto diventa gigantesco e brutale, gli uomini sono ingombri di problemi primari:

di fronte all’evidenza della sua piccolezza su homine o soccombe a una mitezza animale oppure fa più grande la sua nullità sporgendo in fuori il petto contro dio – e di su re così umano si sente solo il respiro,

si sente il suono della masticazione e della deglutizione del suo corposangue davanti al fuoco

l’audio è così profondo da ricordare le sperimentazioni di musique concrète, l’atto prosaico del caffè ingoiato durante la Alan’s Psychedelic Breakfast dei Pink Floyd

su queste pietre aride si capisce bene la necessità del dio mangiato: divino e bestiale sono l’unico pasto: rito e alimentazione quotidiana

Cristos è la carne della pecora che ho nella sacca e che mi tiene in vita fino a domani

questo di Columbu è un dio fatto di silenzio persino sotto il sibilo delle frustate, così violento e vero da fare male a chi guarda

in questi luoghi aspramente evangelici Cristos non può essere Verbo:

la parola è la spada del potere, è la dote dei ricchi e dei sacerdoti: fa paura e inquisisce, punta la lama alla gola e piega dio per terra insieme ai mirti crucifixos dal vento

la vera legge è quella di un dialetto vicino al silenzio di una gola animale sull’impervia vertigine del Golgota

sul decorso roccioso, maschile, della madreterra

dove resta il respiro affannoso della bestia divina (torna l’asino santo di Bresson), resta il sòffoco di una bestia muta da sacrificio

che è il reu , ovvero il completamente innocente, quello che è insultato fino sulla croce da chi perde dalla bocca il suo sangue terrestre

qui non si ride mai. nessuna bestia ride. dio non ride.

Christòs non parla mai senza motivo, non canta mai, non rifà mai la musica dell’erba con le parole

il dio della più grande misericordia non ride, affinché noi possiamo

il solo riso si muta immediatamente nell’agghiacciato stupore di una donna di fronte al sangue 

la pietà di Maria – quella che fu Susanna Pasolini ne Il vangelo secondo Matteo – estirpata dai piedi della croce: Togliete di lì quella donna

quale mano di uomo impedirebbe agli occhi di una madre di stare fissi sullo strazio del figlio, di inzupparsi del sangue che il figlio versa e farne un secco, interminato pianto

Maria – la madre – vista dall’alto della croce: il dio crucifixu e sa mama terrestre, sotto la luce nera del distacco, risentono insieme il primo vagito del figlio, ancora vivo –

fin che i polmoni ce la fanno a inspirare il freddo montano di marzo, vivo fino a che i tendini e le articolazioni reggono, legata al corpo, la sua piccola vita che se ne fugge, fino a che tutto il corpo regge al pianto di figlio abbandonato che lo scuote, vivo

fino al ruggito di mutilazione del creato, poiché ora al paesaggio è stata sottratta la figura di Cristo

– fino alla fuga della mandria umana davanti alla morte di dio

e alla collera del padre suo, fatto di nere nuvole incombenti e vento che non lascia più dormire e sangue che ricade per generazioni

cristos è stato asportato dal paesaggio come un pezzo nero di preistoria. poi viene il coro umano della deposizione, il nunc dimittis di Arvo Pärt – ed è così che il mondo torna a splendere

come splende attraverso di noi la voce estinta

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